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Teatro Musicale oggi

Che negli ultimi tempi i nostri stili di vita siano profondamente cambiati mi pare una cosa sotto gli occhi di tutti: l’informatizzazione diffusa, i media elettronici, le comunicazioni di massa hanno profondamente inciso nelle nostre abitudini e nei nostri consumi, talvolta imponendoci nuovi comportamenti e nuovi ritmi di lavoro.

Sotto a queste manifestazioni apparenti si cela un fenomeno molto complesso, certamente di portata epocale: il passaggio da una civiltà tecnologica, fondata sulla meccanica, a una civiltà dominata dalla tecnologia elettronica e informatica. È evidente che uno degli aspetti più straordinari di questo mutamento è il suo impatto con il mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo.

Termini quali «tempo reale» o «realtà virtuale», fino poco tempo fa territorio esclusivo dell’utopia e della fantascienza, fanno oggi parte del nostro lessico quotidiano, riflessi di un universo mediatico ove la qualità e la verosimiglianza dei cosiddetti «effetti speciali» (del cinema, ma anche della TV, del teatro, delle telecomunicazioni, dell’editoria elettronica, ecc.), sottolineano il ruolo che hanno oggi assunto e possono ancora assumere l’elettronica e i computer nell’evoluzione delle arti e in genere di tutte manifestazioni creative e comunicative.

Oggi il teatro musicale non vive certo uno dei suoi momenti migliori. Da un lato l’istituzione, l’Ente lirico, investe cospicue risorse per tener in piedi una tradizione costruita in modo pressoché esclusivo sul consolidato repertorio del melodramma, generalmente messo in scena con metodi e mezzi tradizionali che non tengono conto, se non in piccola parte, di tutte le potenziali risorse tecnologiche utilizzabili in questo contesto.

D’altro lato da più parti ci si chiede se abbia ancora senso produrre e allestire nuove opere di teatro musicale cioè, in altre parole, se il teatro musicale possa essere considerato o meno un’espressione musicale legittima nell’ambito della cultura contemporanea. Le diverse posizioni sono note.

A titolo esemplificativo, rimanendo legati al dibattito sulla questione sorto nel nostro Paese attorno agli anni sessanta-settanta (ma tutt’oggi aperto), un’ampia schiera di musicisti, cui dava voce Franco Donatoni, sosteneva che l’opera poteva, anzi doveva ritenersi un’esperienza conclusa: un’espressione artistica datata e inattuale, indissolubilmente legata alla rappresentazione d’ideologie e modelli culturali di una società ormai estinta.

A questa prospettiva di abbandono e dismissione reagivano e si contrapponevano i Berio, i Maderna, i Nono, i Bussotti e altri importanti musicisti che, pur da posizioni diverse, credevano ancora in un’irrinunciabile funzione del teatro musicale, ritenendone però necessario il rinnovamento radicale.

Questo rinnovamento doveva aver luogo a partire da un recupero e da una presa di coscienza di quei connotati autenticamente teatrali, ricchi di potenziale espressivo, intrinsecamente drammaturgico, che una spettacolarità totalmente esteriore (resa evidente dalla convenzionalità delle trame e dei libretti, dal concentrarsi esclusivamente sulla vocalità e sul sinfonismo pittorico-descrittivo della partitura orchestrale) aveva oscurato e rimosso dal teatro lirico.

Si cominciò allora con il riflettere in maniera più sistematica sulle esperienze compiute dalla prosa nel cinquantennio addietro, con particolare riferimento alle opere teoriche e agli allestimenti teatrali di Appia, Craig, dei futuristi italiani, dei costruttivisti russi e infine di Antonin Artaud, ai cui scritti fu dato particolare rilievo.

Un esempio: la polemica che aveva animato il dibattito parigino sul teatro e sulla messa in scena cent’anni prima, contrapponendo il realismo naturalistico di André Antoine ed Emil Zola al simbolismo astratto di Aurélien Lugné-Poë e Maurice Maeterlinck, fu rivisitata sotto una prospettiva totalmente nuova.

Fu chiaro allora che una netta linea di demarcazione separava: da una parte il teatro del personaggio, della narrazione, dell’azione scenica, dell’immedesimazione; dall’altra il teatro del rito, della concentrazione spirituale, della percezione dell’inesprimibile, delle atmosfere psicologiche vissute in una dimensione puramente emotiva.

Ma a una più attenta rilettura dei testi di Artaud e delle avanguardie si veniva chiarendo che questa semplicistica discriminazione si presentava assolutamente lacunosa e per molti aspetti del tutto falsa. Il problema non era nella distinzione di generi, ma nell’individuazione di contenuti, di criteri organizzavi e di strumenti espressivi, tanto nell’opera in sé che nella sua messa in scena.

Oggi abbiamo tutti pienamente compreso che se il teatro musicale vuol vivere, deve rifondarsi da questo punto. Al teatro della parola intesa come narrazione, vicenda, sentimenti e valori in parte condivisi, bisogna contrapporre un teatro del suono, della luce, del gesto, un rito evocativo di un mondo al di là dello spazio circoscritto della scena, ove si riflettano gli archetipi, la dimensione profonda della psiche e della coscienza umana.

Sintetizzando Artaud il teatro non va pensato come uno spazio fisico, ma come una forza, un’energia, che esprime la vita attiva. Il teatro è la sola arte della vita e, come la vita, non si evolve ma si trasforma.

La sola forma del teatro è dunque un’inquietudine, una condizione, il suo solo senso è nel gesto, fisico, musicale o vocale e da qui nasce la sua forma. In quest’essenzialità assoluta il teatro musicale ritrova nuova vitalità e legittimazione, diventa rito del suono, della voce, del gesto, attraverso un processo di recupero dei suoi mezzi espressivi e dei suoi contenuti più autentici, un processo che nello stesso tempo lo allontana irreversibilmente dagli stereotipi del melodramma e lo riaccosta alle origini, alla tragedia classica, alle sacre rappresentazioni medievali, al teatro orientale (il Nô, il Kabuki, il teatro balinese). 

Quando l’illusione cinematografica e il mondo virtuale dello schermo si sovrappongono con perfetta verosimiglianza alla realtà, riuscendo talvolta a sostituirsi a essa, l’unica forza che il palcoscenico può opporvi è l’immanente urgenza del rito, nel quale la presenza fisica e l’immediatezza del gesto sono condizioni inderogabili, a patto però che questo teatro riesca a instaurare con il pubblico degli spettatori quel sottile, implicito legame compartecipativo che del rito è l’essenza più autentica.

Marco Giommoni