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Il professore e la bomba

“Un solo atto di gentilezza mette le radici in tutte le direzioni, e le radici nascono e fanno nuovi alberi” disse Emma.

Il professor Guidi la guardò con curiosità: “Una frase molto saggia per una ragazzina così giovane.”

“Non è mia. La ripete sempre la mia matrigna e oramai la so a memoria. Anche lei dovrebbe farne tesoro, prof., facendoci la gentilezza di non rompendoci le scatole ogni giorno.”

Il resto della classe mormorò divertita e restò in attesa della replica da parte dell’autorità scolastica.

Il professor Guidi, che nella sua disgraziata carriera era capitato nell’abisso di una scuola di periferia frequentata per lo più da giovani pericolosi e demotivati provenienti da famiglie di sbandati, non era certo famoso per l’indulgenza. Di solito, di fronte a una simile impertinenza, sbraitava per diversi minuti e nell’occasione volavano fogli e penne e registri e parole non degne di un educatore; infine concludeva la sua arringa con una dettagliata nota sul registro.

Contrariamente ad ogni aspettativa, questa volta mantenne la calma e prese a passeggiare tra i banchi in atteggiamento riflessivo. Quello che gli studenti ignoravano era che il professor Gilberto Guidi aveva affrontato durante tutta l’estate molte sedute di terapia presso un titolatissimo psicologo, con il solo scopo di non perdere la brocca di fronte a episodi simili.

Per riuscire nell’ardua impresa ricorreva anche a una robusta quantità di pillole rosse che gli erano state prescritte. Infine aveva abbracciato le teorie pacifiste di un certo Oman Gundu, una specie di santone filo-orientale che faceva proseliti nel suo quartiere e animava serate, in una sala scalcinata, sulla non violenza e la comprensione dell’altro. Il professore, dunque, tra la fine di un anno scolastico e l’inizio di quello successivo, aveva speso una cifra considerevole tra analista e farmaci, e un notevole monte ore con le sedute meditative di Oman Gundu, tanto che, per la prima volta nella sua lunga carriera, era riuscito a reprimere la collera e a spingerla ben bene nel fondo dello stomaco; infine l’aveva sentita evaporare dal suo corpo tramite una bella serie di respiri profondi e cadenzati.

Giunto in fondo all’aula, si voltò e disse con pacatezza: “Emma Pisoni: un solo atto di gentilezza da parte tua nei confronti del tuo vecchio professore sarebbe assai gradito. Ci sono altre cose che mettono le radici e fanno nuovi alberi, e non sono necessariamente atti di gentilezza. Dalla tua impertinente bocca infatti non escono che volgare e immotivato disprezzo, che mette radici nel mio stomaco accorciandomi considerevolmente la vita. O almeno così ha detto il dottor Pollini quattro mesi or sono. E anche il maestro Gundu era dello stesso avviso.”

“Che?” chiese Emma. Restò spiazzata, con la bocca spalancata, senza aver capito nulla.

Il professore ne approfittò per concludere con calma olimpica: “Questo è un messaggio per tutta la classe: d’ora in poi non riuscirete più a farmi avvelenare il sangue coi vostri dispetti. Non vi darò la soddisfazione di vedermi sbraitare come un uomo preda delle fiamme e non mi sentirete nemmeno alzare il volume della voce al di sopra di quello che sto ora utilizzando.”

La prima B dell’Istituto Alberto Capone era indignata, non tanto nei confronti di Emma Pisoni per aver attentato alla salute mentale del buon professore, quanto nei confronti del professore stesso.

Per anni avevano sentito parlare quelli più grandi di loro delle sue celeberrime sfuriate e da anni pregustavano il momento in cui sarebbe finalmente toccato a loro godersi lo spettacolo. Invece avevano di fronte la versione grassoccia di Mahatma Gandhi. Un grosso senso di delusione si impadronì della classe: cosa avrebbero fatto, ora, per tutto l’anno? Avrebbero sul serio dovuto seguire le lezioni?

Dalle spalle del professore, qualcuno provò un’ultima disperata sortita, espletando una potente pernacchia. Il professore non si diede nemmeno la pena di voltarsi e tornò verso la cattedra dicendo agli studenti di aprire il libro a pagina cinque. Con sommo orrore furono messi di fronte alla realtà di due ore sulla coniugazione dei verbi inglesi.

Nei mesi successivi i ragazzi, che avevano accettato quella che per loro era stata una sfida, tentarono di mettere a dura prova i nervi dell’insegnante. Iniziarono dalle basi acustiche: pernacchie, versi e buffonate simili mentre la vittima era intenta a scrivere alla lavagna. Poi passarono alla artiglieria pesante: le cerbottane con le penne, gli aeroplani di carta e le puntine sulla sedia, che vennero però trasformate dal docente, rispettivamente, in brevi lezioni sulla matematica delle parabole, la fisica del volo e risate bonarie.

Di tanto in tanto qualcuno veniva sbattuto fuori dalla porta, o mandato dal preside, ma con pacata gentilezza. A poco a poco la classe si arrese alla serenità interiore del professor Gilberto Guidi e si rassegnò ad apprendere nozioni interdisciplinari.

Quello che tutti ignoravano è che dentro il docente la rabbia era troppa per poter essere smaltita completamente di volta in volta, quindi sedimentava e ad ogni angheria un piccolo strato di nuova collera si aggiungeva a quello precedentemente accumulato. Nemmeno lui si accorse di questo, perché la sua mente era impegnata a ripetere mantra di autocontrollo ed era sopita dai potenti psicofarmaci moderni.

Un giorno, alla fine dell’anno scolastico, il professore arrivò in aula come al solito, ma al contrario della consueta confusione che precede ogni lezione, regnava uno strano silenzio d’attesa. Non era abituato a simili accoglienze, quindi entrò in uno stato di allerta interiore. Scacciò la solita puntina dalla sedia con una zampata annoiata, deposito la sua roba sulla cattedra e si mise a scrutare i volti degli studenti.

Alcuni sembravano contenere a stento le risa, altri erano terribilmente seri. Emma Pisoni simulava disinteresse scrutando un punto imprecisato fuori dalla finestra. Iniziò la lezione e tutto finì senza incidenti.

Alla fine, si sedette sulla cattedra e disse: “Bene, l’anno scolastico è giunto al termine e desidero condividere con voi alcune riflessioni. Siete stati terribili, tutti. Avreste voluto sfruttare la mia fama di collerico per fare a gara per farmi a pezzi i nervi. Avete trascorso ogni singolo giorno perseguendo questo intento, ma io ho tenuto duro e non mi sono lasciato trasportare dalle emozioni. Quando sono entrato qui, oggi, avevo l’impressione che aveste preparato qualcosa di grosso per questa ultima ora di lezione. Vi confesso che il timore di un ennesimo attentato alla mia sanità mentale mi avrebbe indotto a bocciarvi tutti senza esclusione. Ma non essendo accaduto niente, vi ringrazio per aver desistito e vi auguro una buona estate.”

La campana suonò con tempismo perfetto, e gli studenti lasciarono la scuola gridando e saltando per la gioia. L’ultima ad uscire dall’aula era proprio Emma Pisoni e il professore le chiese di fermarsi. La ragazzina arrestò la sua fuga.

“Grazie, Emma” disse il professore mostrandole un biglietto che recitava: “Non apra il primo cassetto. E.P.”.

“Non c’è di ché, professore.”

“Perché l’hai fatto? Temevi una bocciatura?”

“No, affatto. A quest’ora dovrei essere in quarta. A nessuno di noi importa niente della scuola. Direi che si è trattato più che altro di…rimorso. Lei è il miglior insegnante che ci sia mai capitato.”

“Quindi voi provate dei sentimenti nei miei confronti: allora ce lo avete, un cuore. Dimmi, che cosa c’è nel cassetto?”

Emma si morse il labbro: “Un piccolo ordigno.”

Il professore si sedette, costernato. “Io mi trovo all’inferno. Io mi trovo all’inferno e voi siete i figli di Satana.”

“Non le avrebbe fatto niente, a parte un bello spavento” minimizzò la ragazzina.

“Come lo avete costruito?”

“Abbiamo usato due petardi per l’esplosivo, una batteria per l’innesco e altre componenti. Su Youtube c’è il tutorial.”

“Immagino di doverlo considerare un gesto di gentilezza da parte tua” constatò il professore.

“Se lo vuole…”.

“Io non credo di poter continuare a fare questo lavoro, Emma. Qui ormai serve un addestramento militare.”

“Prof., tenga duro. Non getti la spugna con noi.”

Il professore fissava il soffitto: “Puoi andare, Emma. Grazie.”

“Passi una buona estate.” Il professore le sorrise con amarezza e tornò a fissare il soffitto. Quando la ragazza se ne fu andata, si fece coraggio e usando la sua valigetta come scudo e la giacca arrotolata come cuffia anti-rumore, aprì il cassetto per far detonare l’ordigno, ma non accadde nulla.

Trovò solo una busta rossa con dentro un biglietto bianco. Al centro del biglietto, come l’isola maggiore di un grande arcipelago, campeggiava la scritta ‘Grazie’ attorniata dalle firme di tutta la classe. Il professore si sedette e una lacrima si mise a correre sul suo volto. La collera accumulata se ne andò di colpo, per sempre.

Era successo proprio quello che gli aveva promesso il maestro Gundu, anche se non ci aveva mai creduto: senza nemmeno muovere un muscolo, aveva cambiato il mondo.

Massimiliano Falavigna, vincitore del Concorso Letterario Nazionale Rosso d’Inverno, categoria Adulti