La ricerca condotta dai paleontologi dell’Università di Pisa e del New York Institute of Technology ha fatto luce anche sull’origine dell’Orca, un altro superpredatore dei mari attuali.
Quand’è che i cetacei hanno cominciato a nutrirsi di altri mammiferi marini? Probabilmente in tempi molto recenti, almeno così sembra dal ritrovamento in Grecia di uno straordinario delfino fossile, simile e imparentato con l’attuale pseudorca (Pseudorca crassidens). Questo fossile è stato, infatti, ritrovato insieme al suo ultimo pasto, rappresentato da resti di pesci. La conferma arriva anche dallo studio di un reperto scoperto in Toscana oltre un secolo fa, parente stretto dell’attuale orca (Orcinus orca).
La pseudorca e l’orca sono gli unici cetacei attuali che si nutrono di altri mammiferi marini. Le pseudorche catturano spesso altri delfini, mentre le orche predano non solo foche e piccoli cetacei ma anche balenottere lunghe più di 10 metri.
Entrambi questi cetacei si nutrono di grosse prede che cacciano in branchi, sferrando potenti morsi per lacerare la carne delle loro vittime in maniera analoga agli squali.
Fino ad oggi, però, mancavano delle prove fossili che illustrassero l’origine di questo comportamento alimentare, sebbene le analisi genetiche indichino che esso si sia evoluto indipendentemente nelle due linee evolutive distinte dell’orca e della pseudorca.
Un nuovo studio condotto dai paleontologi dell’Università di Pisa e del New York Institute of Technology permette ora di riscrivere la storia evolutiva di questi grandi predatori dei mari e i risultati ottenuti sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale Current Biology.
Le ricerche sono state svolte su due fronti separati da oltre un secolo di storia: un nuovo straordinario reperto fossile da poco rinvenuto a Rodi (Grecia) e l’unico antenato della moderna orca, scoperto a Cetona (Toscana) nella seconda metà dell’800.
Il fossile di Rodi consiste di uno scheletro scoperto nel 2020 da Polychronis Stamatiadis, esperto di geologia e di paleontologia, nelle rocce argillose che affiorano nella baia di Pefkos sulla costa sudorientale dell’isola. Queste rocce derivano da sedimenti che si deposero sul fondale marino tra 1,5 e 1,3 milioni di anni fa. Il fossile rappresenta uno dei più completi scheletri di cetacei del Pleistocene mai rinvenuti fino ad ora.
“Appena ho ricevuto da Polychronis le foto di questo reperto – racconta Giovanni Bianucci, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e primo autore della pubblicazione – mi sono subito reso conto dell’importanza di questa scoperta, confermata poi dalla mia visita a Rodi dove, grazie all’ospitalità di Polychronis, ho avuto modo di studiare in dettaglio il reperto. Durante lo studio ho potuto constatare che si trattava di un delfino nuovo alla scienza, un cetaceo affine alla pseudorca ma con alcuni caratteri del globicefalo, che abbiamo chiamato Rododelphis stamatiadisi dedicandolo all’isola greca dove è stato ritrovato ed al suo scopritore.”
Ma il prof. Bianucci e i suoi colleghi volevano capire anche di cosa e come si nutrisse questo nuovo delfino: era un feroce predatore che catturava anche altri cetacei come fanno oggi l’orca e la pseudorca o si alimentava in maniera più tranquilla in acque profonde aspirando per suzione polpi e calamari come il globicefalo? Lo studio del cranio e dei denti chiariscono solo in parte questi dubbi sulle abitudini alimentari di Rododelphis. Se è vero, infatti, che il delfino di Rodi presenta alcune affinità macropredatorie con pseudorca, quali la presenza di 11 denti robusti impiantati sulla mandibola e l’ampia fossa temporale (l’area del cranio dove si inserisce la muscolatura boccale); d’altra parte la forma arrotondata della mandibola, la posizione arretrata dell’ultimo dente mascellare e l’usura limitata dei denti sono caratteri che si riscontrano nel globicefalo e in altri cetacei che praticano la suzione.
“La soluzione di questo rompicapo – afferma Alberto Collareta, anche lui paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che ha preso parte allo studio – viene dall’eccezionale ritrovamento dei resti fossili dell’ultimo pasto del delfino di Rodi, rinvenuti intorno allo scheletro al momento dello scavo e della sua preparazione. Si tratta di otoliti, concrezioni di carbonato di calcio che si trovano nell’orecchio interno dei vertebrati. Gli otoliti sono spesso l’unica parte che si conserva allo stato fossile nei pesci. Quelli trovati associati a Rododelphis appartengono a Micromesistius poutassou, comunemente noto con il nome di melù, un pesce che vive tutt’oggi anche nel Mediterraneo tra 300 e 400 metri di profondità circa. Grazie all’esame di questi otoliti è stato anche possibile stimare intorno ai 30 cm la lunghezza dei pesci catturati dal delfino.”
Che informazioni ricaviamo dal ritrovamento di questi otoliti? Che Rododelphis si cibava di pesci di media taglia e quindi che, forse, non era in grado di catturare altri delfini, come invece fa la pseudorca; ma anche che, diversamente dal globicefalo, non si nutriva di piccoli cefalopodi.
Mentre Polychronis scopriva lo scheletro di Rododelphis, Sara Citron aveva appena terminato la sua tesi di laurea magistrale in Conservazione ed Evoluzione all’Università di Pisa sull’Orcinus citoniensis, l’orca fossile scoperta a Cetona (Siena) in sabbie marine plioceniche di 3-4 milioni di anni fa. Questo eccezionale scheletro fu descritto per la prima volta nel 1883 dal grande naturalista Giovanni Capellini che ha dato il nome al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Bologna, dove il fossile è tutt’ora conservato ed esposto.
“Con il mio lavoro di tesi – racconta Sara – ho avuto l’occasione di studiare in dettaglio questo fossile e di ricavare indizi importanti sulla dieta di questo antenato del più grande predatore attivo tra tutti i cetacei attuali. L’orca di Cetona sembra una versione ridotta della specie attuale Orcinus orca: la forma del suo scheletro è molto simile alla specie moderna, ma la lunghezza del corpo non doveva superare di molto i tre metri, circa la metà dell’orca attuale. Con una taglia così piccola è quindi improbabile che Orcinus citoniensis fosse in grado di catturare grosse prede come fa invece la specie attuale. Il cranio presenta un rostro più lungo e più stretto e una fossa temporale più piccola rispetto a Orcinus orca, supportando ulteriormente l’ipotesi che anche l’orca di Cetona, come il delfino di Rodi, non fosse in grado di catturare prede grandi come delfini o balene.”
Lo studio dell’usura e della microusura apicale dei denti di Orcinus citoniensis confermano le osservazioni fatte sulla forma del cranio e sulla taglia: queste abrasioni, causate dall’attività di predazione, sono compatibili con un’alimentazione a base di pesce, in analogia con quanto osservato in alcune popolazioni attuali di orche.
Lo studio condotto da Sara suggerisce, quindi, che anche Orcinus citoniensis si alimentasse di pesci di media taglia.
Rimaneva da capire quali fossero le relazioni di parentela tra queste due specie fossili e le attuali orca e pseudorca. Per risolvere questo mistero è stato necessario ricostruire la filogenesi (una sorta di albero genealogico) dei Delfinidi, la famiglia di cetacei di cui fanno parte il delfino di Rodi, la pseudorca, l’orca di Cetona e l’orca attuale.
Lo studio ha messo in evidenza speciali affinità di Rododelphis e Orcinus citoniensis rispettivamente con Pseudorca e Orcinus orca. In pratica, questa analisi ha confermato che il delfino di Rodi e l’orca di Cetona rappresentano due stadi evolutivi simili ma distinti che hanno poi portato all’orca ed alla pseudorca attuali. In questa fase la predazione avveniva preferenzialmente ai danni di pesci di taglia media, piuttosto che su foche, delfini, balene e altri tetrapodi come invece nelle due specie attuali. Riuscire a catturare pesci di media taglia può essere considerata una tappa evolutiva intermedia verso l’alimentazione di tetrapodi. Questo avvenne in tempi molto recenti, quando le balene erano già molto grandi. Non fu quindi la predazione delle orche, come invece ipotizzato in passato da qualcuno, ad accelerare la tendenza al gigantismo delle balene.
“Questo studio – conclude Giovanni Bianucci – fornisce un piccolo ma importante tassello per arrivare a comprendere appieno la messa in posto della fauna moderna a delfinidi e più in generale a cetacei, ancora in gran parte avvolta nel mistero a causa dell’estrema scarsità globale di fossili significativi di cetacei del Pleistocene. Il ritrovamento di Rododelphis incoraggia a continuare ad indagare aree come la Grecia e l’Italia meridionale dove sono abbondantemente esposti sedimenti marini pleistocenici, potenzialmente ricchi in cetacei fossili.”
In copertina, Cranio e mandibola di Rododelphis stamatiadisi il delfino pleistocenico di Rodi (Grecia) (foto G. Bianucci)