Si amplia il Presidio Slow Food dei mieli alpini d’alta montagna
Sette produttori in Friuli-Venezia Giulia e uno in Trentino-Alto Adige aderiscono al progetto che da anni tutela le produzioni di miele oltre i 1400 metri.
Sopra i 1400 metri d’altitudine il castagno non lo si trova, così come l’acacia e il tiglio. Non sono piante qualsiasi, ma quelle che normalmente sono coinvolte nella produzione di miele in nord Italia. E allora perché parlare di miele sopra i 1400 metri? Perché Slow Food da anni tutela gli apicoltori che decidono di produrre miele in alta montagna. L’omonimo Presidio, negli ultimi tempi, si è allargato: sette apicoltori in Friuli-Venezia Giulia e uno in Trentino-Alto Adige sono entrati a farne parte. Le tipologie di miele prodotte lungo l’arco alpino sono tre: di rododendro, di millefiori e di melata di abete.
Perché fare il miele così in alto?
L’assenza delle piante tipicamente legate all’apicoltura, e dalle quali le api ricavano il nettare che diventerà miele, rende molto difficile fare apicoltura in alta montagna. E allora perché farla? E perché un Presidio Slow Food? I motivi sono diversi, vediamo di spiegarli uno per uno.
1. Primo: perché le api sono fondamentali per l’impollinazione
Che le api (così come altri insetti) svolgano un ruolo fondamentale per l’impollinazione non è un segreto: volando da un fiore all’altro per cibarsi del nettare, contribuiscono a trasportare il polline dall’antera (la parte maschile delle piante) allo stigma (cioè la parte femminile), dando il La alla riproduzione di semi. Questa funzione, naturalmente, la svolgono anche alle quote più alte dove, senza il loro lavoro, rododendri, campanule, lupinelle e trifogli fiorirebbero con più difficoltà, affidandosi al vento o al lavoro di altri insetti come bombi e api selvatiche. Le api, insomma, giocano un ruolo importante nell’impollinazione delle aree montane; e l’apicoltura, evidentemente, favorisce questo processo.
2. Secondo: perché fare apicoltura in alta quota contribuisce alla cura della montagna
Un’altra ragione che ha spinto Slow Food ad avviare il Presidio dei mieli di alta montagna alpina è il fatto che l’apicoltura genera cura del territorio: un po’ come accade con l’allevamento, che assicura benefici ai prati dove gli animali pascolano durante l’alpeggio, anche produrre miele è un modo per combattere l’abbandono e l’impoverimento delle Terre Alte e scongiurare l’avanzata incontrollata dei boschi, un fenomeno che (a differenza di quanto possa sembrare) non è positivo ma rischia di generare problemi di gestione del territorio, come frane, smottamenti, incendi.
3. Terzo: perché il miele d’alta montagna è buonissimo
E poi i mieli di alta montagna sono eccezionali. Il profumo delicato li accomuna tutti, ma ciascuno ha caratteristiche che li distingue dagli altri: quello di rododendro e il millefiori sono più freschi e raffinati, perfetti per accompagnare pecorini stagionati o erborinati; quello di melata, dal colore quasi nero, ha un sapore più aromatico che ben si sposa con formaggi di media stagionatura.
Anche mieli dello stesso tipo sono profondamente diversi a seconda della zona geografica dove si trova la pianta: da ovest a est, dal Piemonte al Friuli-Venezia Giulia, il miele di rododendro ad esempio ha proprietà organolettiche differenti, anche perché le piante crescono ad altitudini diverse a seconda delle caratteristiche del terreno. Insomma, una biodiversità nella biodiversità.
Un modello di apicoltura da difendere
Produrre miele in alta montagna non è semplice, perché i raccolti sono quantitativamente scarsi: quando l’annata è buona (capita una volta ogni quattro o cinque anni), ci si assesta su pochi quintali. Il miele di melata d’abete non si fa neppure tutti gli anni, quello di rododendro è così raro che è una peculiarità quasi esclusivamente italiana. Eppure c’è chi crede in questo lavoro: i produttori coinvolti dal Presidio Slow Food oggi sono una cinquantina in cinque regioni: Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige e nella zona carnica del Friuli-Venezia Giulia. Il recente allargamento verso est, reso possibile dal sostegno di Ricola, rappresenta un importante sviluppo del progetto che consente di abbracciare l’intero arco alpino.
Chi investe nell’apicoltura ad alta quota lo fa perché conosce l’importanza delle api e l’eccezionalità delle produzioni: “In un vasetto di miele ci sono ore di lavoro, competenza tecnica, conoscenza e profondo rispetto per lo straordinario lavoro di questi insetti” spiega Alexandra Moretti, apicoltrice e coordinatrice del gruppo di produttori del Friuli Venezia-Giulia. “Con gli altri produttori del Presidio Slow Food condividiamo le metodologie di lavorazione e lo stesso approccio verso le api”. Le fa eco Maria Luisa Zoratti, che nella stessa regione è referente Slow Food del Presidio: “La nostra priorità è sostenere la comunità di apicoltori che contribuisce al mantenimento della biodiversità dei prati e dei pascoli di alta montagna, da tempo soggetti all’abbandono. Lo spopolamento delle aree montane può essere contrastato: noi lo facciamo incentivando attività produttive sostenibili e amiche dell’ambiente”.
Ma produrre è conveniente?
Senza sostenibilità economica non esiste sostenibilità ambientale, è chiaro: ma quindi salire fino a 1.400 metri per produrre miele conviene oppure no? A rispondere ci pensa Mauro Pizzato, responsabile del progetto miele di Slow Food: “Nessuna delle aziende che aderiscono al Presidio è basata a quelle altitudini – spiega –. Laboratori e arnie si trovano a quote più basse, a media montagna oppure in collina e pianura, e gli apicoltori praticano quello che potremmo definire nomadismo a corto raggio, movimentando poche casse. Ciò che fanno, in altre parole, è sì spostare le api seguendo le fioriture, risalendo la montagna man mano che la stagione si fa più calda, ma rimanendo sempre all’interno della propria area di riferimento”. Niente spostamenti da centinaia di chilometri che, oltre a mettere le api in condizioni di enorme stress, potrebbero alterare equilibri delicati.