Accade spesso che alcune canzoni passino in sordina pur essendo dei grandi successi. Quelle canzoni che rimangono nel cuore, che hanno consumato le nostre radio e le nostre orecchie. Di cui sappiamo i testi a memoria, ma sui quali neanche ci soffermiamo a comprenderne il significato.
La più famosa canzone di Raf, Cosa resterà di questi anni ’80, solcando la parabola discendente della discomusic, ci propone sotto gli occhi un quadro storico-filosofico dell’Italia (se non del mondo) di quell’epoca – la canzone fu appunto pubblicata nel 1989, presentata da un giovane e capellone Raf al festival di Sanremo.
Anni come giorni son’ volati via
brevi fotogrammi o treni in galleria
è un effetto serra che scioglie la felicità
delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà.
Raf inizia la canzone dichiarando esplicitamente la fine di un’epoca, ma non solo… la fine di una certa tipologia di “uomo”; un uomo con determinate “voglie” e “jeans” che oramai hanno terminato il loro tempo.
Di questi anni maledetti dentro gli occhi tuoi
anni bucati e distratti noi vittime di noi
ora però ci costa il non amarsi più
è un dolore nascosto giù nell’anima.
Sempre di più, tra la malinconia delle parole, usce il nucleo filosofico della canzone. Il primo sintomo è quel “noi vittime di noi”. Raf ci sta dicendo che gli anni ’80 sono stati un gran periodo di danza e libertà, ma in realtà furono come una medaglia che nasconde una terribile faccia. Terribili guai sono scaturiti da quegli anni, guai perpetuati da noi stessi.
Cosa resterà di questi Anni Ottanta
afferrati già scivolati via.
Cosa resterà e la radio canta
una verità dentro una bugia.
Incontriamo per la prima volta il grande e potente ritornello che tutti sanno canticchiare, ma come una katana, l’ultimo verso è tagliente e attacca a tradimento ed è forse la summa di tutto il senso della canzone: “la radio canta una verità dentro una bugia.” Gli anni ’80 sono stati una menzogna. Per comprendere al meglio questo passaggio fondamentale, bisogna anche riportare un verso della seconda strofa:
Anni di amori violenti litigando per le vie
sempre pronti io e te a nuove geometrie
anni vuoti come lattine abbandonate là
ora che siamo alla fine, noi, di questa eternità.
Gli anni ’80 furono una “eternità“ (un periodo lungo come un “treno in galleria” che retrospettivamente viene ora visto come un “breve fotogramma”), e, in un modo che letteralmente è paradossale, si è alla fine di questa.
L’uomo durante quell’epoca storica si sentiva (e si era costruito) una specie di eternità spirituale, dove non dover pensare a nulla, dato che tutto oramai era fatto. Un periodo senza preoccupazioni, dove anche il consumismo ne faceva da padrone (quelle “lattine abbandonate là”, oppure “anni veri di pubblicità”).
L’uomo sentiva di vivere alla fine dei tempi.
Un paradiso dei sensi, dove l’unica musica che passava era una felice e danzereccia discomusic. Tutti ballavano a tempo, mentre al di fuori di quei confini dell’eternità danzava anche “la fame nel mondo”.
La fine degli anni ’80 è quindi il giorno dell’Apocalisse, ma senza lieto fine. È il momento in cui il velo di maya viene strappato ferocemente.
Forse domani a quest’ora non sarò esistito mai
e i sentimenti che senti se ne andranno come spray.
L’uomo si ritrova finalmente a “non esistere“ in realtà esistendo più di prima. Durante l’eternità degli anni ’80, le persone non hanno avuto necessità di avere delle responsabilità, e senza responsabilità non c’è l’uomo e non c’è in quanto è un uomo che non “agisce” (per dirla con Hannah Arendt). L’uomo non può agire nell’infinito, nell’eterno; può solo goderselo, accontentarsi di una vita contemplativa. Quando però si richiama l’uomo all’attenzione (e all’azione) mettendolo di fronte ad un mondo completamente ignorato e devastato gli è difficile accettare che quello sia il suo di mondo; per questo “domani a quest’ora non sarò esistito mai”, perché non essendo mai esistito, si ritroverà disperso in questa sua nuova realtà.
La canzone di Raf è stata affondata in fondo alla classifica del festival dei fiori, e di questo forse non bisogna stupirsi: il cantante, come un profeta, era sul palco per avvisarci della condizione in cui stavamo riversando, ma il pubblico non è mai disposto ad ascoltare malauguri del genere, e invece di crocifiggere questo gufo portatore di sciagure, lo spedirono negli ultimi posti di Sanremo, e, forse cosa peggiore, lo resero un successo commerciale, ora simbolo di nostalgia di quegli eterni tempi passati.
Matteo Abozzi