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A tu per tu con il male oscuro

Credo che questo sia l’articolo più difficile che io abbia mai scritto, perché è un “a tu per tu” con il mio male oscuro.

Capita a tutti di “sentirsi giù”, ma io devo sempre stare attenta a non fare la fine di David Foster Wallace.

Nonostante il bene degli amici che mi circondano, ci sono certe malattie che ti fanno fare cose per cui finisci a guardare i fiori dalla parte delle radici, ragion per cui ci si deve curare. 
Tuttavia sono malattie molto complicate, perché coinvolgono un organo umano che è ancora parecchio sconosciuto: il cervello.

Questo articolo è scritto non solo per voi, ma anche per cercare una sorta di sollievo, al di là dell’aiuto specialistico a cui sono sottoposta.
Quando si ha una malattia così, si ha il sacrosanto diritto di essere curati, e di questo non ringrazierò mai abbastanza il mio specialista e chi mi sta vicino per l’attenzione che mi rivolge, ma si ha anche il dovere di tenersi sotto controllo.

Un po’ come il diabete, ma più insidioso perché non esiste un esame del sangue che ti fa stare tranquillo.
Torniamo al dunque: questa volta (perché il male ti prende in forme diverse a seconda del periodo) la mia bestia nera si chiama ABBASTANZA cioè, quando mi prendono i momenti oscuri, mi sento come se non fossi “mai abbastanza”.

Scritta così suona assurdo, no?

Esiste in me una sorta di pozzo oscuro che ritengo non raggiungibile o che oramai non ha più senso raggiungere. Mi spiego meglio: anche se scoprissi che “non mi sento mai abbastanza” a causa di qualche trauma, questa consapevolezza cambierebbe la mia sofferenza? Ci ho pensato molto e ritengo che, alla fine, il vissuto sia uno zaino di pietre che ti porti sulle spalle: bisogna avere il coraggio di mollarlo e scapparne lontano. Detta così pare facile, ma quando mi pigliano i momenti oscuri è un casino.

Vediamo se riesco a spiegarvi meglio.
Al netto dello stigma sociale che coinvolge la mia malattia e di cui ora faccio giaciglio per scrofe… ADESSO, perché ci ho sofferto talmente tanto in passato da piangere tutte le mie lacrime, sono riuscita a superare anche quella fase e procedo nell’anamnesi di questa mia malattia.

Sto divagando come il compianto David Foster Wallace, ma lui era geniale e, durante uno dei suoi momenti oscuri, ha prodotto una scrittura pesante e arzigogolata, ma sempre ammirevole.
Per comprendere meglio, vi consiglio di leggere “Brevi interviste con uomini schifosi”, in particolare “La persona depressa”, vi aiuterà.

Comunque io, che geniale non sono, provo a spiegarvi.
Avete presente quando vi sedete in giardino a piangere e l’unico pensiero che avete è attendere l’autobus per buttarvici sotto?
No? BEATI VOI!

Ecco, quella può essere definita una “crisi”.
Il mio “non essere mai abbastanza” è la versione più blanda di quel momento nero.

Ah, voglio specificare che non si tratta di mera tristezza, diciamo che è più voglia di autodistruzione.
Esiste tutta una trattazione dei vari livelli di depressione che vi invito a consultare, sono facilmente reperibili in internet e potrebbero aiutarvi a considerare con occhi diversi le persone a cui tenete.

Torniamo a questo mio “abbastanza”: la sensazione che mi pervade può essere definita come un senso di inadeguatezza alla società presente: non sono mai “abbastanza brava” per pubblicare un libro, “abbastanza furba” per rapportarmi alle persone dannose, “abbastanza non so nemmeno io cosa” per essere banalmente lasciata in pace.

Buffo, perché una mia carissima amica ridendo mi ha detto che sono scema a pensarla così, e probabilmente da fuori l’apparenza è questa, ma vi assicuro che la sofferenza che percepisco quando mi prende un momento oscuro è reale e densa come sangue venoso.

Che fare allora quando capita? Nulla, aspettare che passi. Concentrarsi a non pensarci, perché in quei momenti la mente ti tradisce e ti fa vivere un incubo atroce. Al netto dei farmaci, questa è una malattia in cui la presa di coscienza aiuta molto, quando non sei in crisi. Perché, quando sei in crisi, mi spiace dirlo ma, per quanto mi riguarda, non c’è nulla da fare.
Già è difficile scrivere un articolo del genere, figurarsi venire fuori da quella melassa mentale che è rappresentata dai “momenti no”!

Quello che sto tentando di dirvi è di non sottovalutare mai le sensazioni che le persone che vi stanno a cuore cercano di trasmettervi quando vi parlano. E anche quando stanno zitte.
Un paio di anni fa ho perso un caro amico per un suo periodo oscuro che nessuno aveva intuito.
Probabilmente non c’è soluzione a chi decide di togliersi la vita, ma abbiate almeno la sensibilità di chiedere alle persone a cui tenete un “come stai?”, sentito dal cuore, e ASCOLTARE la loro risposta, anche senza replicare. Non serve avere una risposta, che nella maggior parte dei casi neanche esiste.

A volte basta un braccio attorno alla spalla di una persona che soffre per farle sentire di non essere sola nella melassa della sua mente.
In fondo siamo esseri umani, creature sociali.

Come diceva il mio compianto nutrizionista, non si possono salvare tutti, ma io penso che farebbe bene sia a chi decide di andarsene sia a chi resta un po’ di empatia.

Per finire, una considerazione personale: non è stato per nulla facile accettare una diagnosi psichiatrica; a causa dello stigma sociale ho passato anni di vergogna che mi potevo risparmiare se la società fosse corretta e tollerante ma, siccome così non è, allo stato attuale delle cose il mio pensiero è egoisticamente rivolto al mio stato di salute.

Per non fare la fine di David Foster Wallace.

Laureata in arte orientale, OSS, scrittrice part-time, matta per i cani e per i tatuaggi. Sicuramente curiosa della vita.