Dalla quarta di copertina:
Nel 1999, dopo aver pubblicato tre romanzi di culto, il celebre scrittore Nathan Fawles annuncia la sua decisione di smettere di scrivere per ritirarsi a vita privata a Beaumont, un’isola selvaggia e sublime al largo delle coste mediterranee. Autunno 2018. Fawles non rilascia interviste da più di vent’anni, mentre i suoi romanzi continuano ad attirare i lettori. Mathilde Monney, una giovane giornalista svizzera, sbarca sull’isola, decisa a svelare il segreto del celebre scrittore. Lo stesso giorno, viene ritrovato sulla spiaggia il cadavere di una donna e le autorità mettono sotto sequestro l’isola, bloccando ogni partenza e ogni arrivo. Comincia allora un pericoloso faccia a faccia tra Mathilde e Nathan, in cui si scontrano verità occulte e insospettabili menzogne, e si mescolano l’amore e la paura…
Recensione
Che l’intento dell’autore sia quello di cimentarsi in una meta-narrazione appare abbastanza esplicito.
Perché?
Perché il suo protagonista è uno scrittore e si chiama Fawles.
Vi viene in mente qualcosa?
Ma certo che sì: John Fowles (l’assonanza del nome è più di una normale coincidenza!)
Proprio quel Fowles, l’autore del romanzo La donna del tenente francese, uno dei padri della meta- narrazione.
Ma a mio giudizio l’obiettivo non è centrato.
Mi spiego meglio: ricordate il caso di Henry Quebert?
Bene, questo è un giallo che lo ricorda molto, i personaggi principali sono due scrittori. Uno disilluso e affermato, l’altro giovane e avido di gloria.
L’ambientazione qui però è diversa e siamo in un’isola della Costa Azzurra.
Ora, per essere sincera, sino a metà del libro, il tentativo di emulazione di Dicker (non credo voluto) regge bene.
E, all’inizio di ogni capitolo, l’autore esordisce con una citazione famosa.
Capitolo I: “La prima qualità di uno scrittore è avere un culo resistente. Dany Laferriere”.
Capitolo II: “Il mestiere dello scrittore fa apparire quello del fantino un’attività stabile. John Steibeck”.
Eccetera, eccetera…
Ma anche questo modo di procedere a voi chi fa venire in mente?
A me Henry Quebert:
«Il primo capitolo, Marcus, è essenziale. Se i lettori non lo apprezzano, non leggeranno il resto del libro. Come hai pensato di iniziare il tuo?»
Ora dico, sin qui tutto sommato, non ci sarebbe neanche nulla di male, perché, come dice Carrisi, tutti gli scrittori copiano.
E per essere sinceri, Musso in molti suoi romanzi ricorre a citazioni in apertura del capitoli.
E infatti qui il problema è un altro.
Cerco di spiegarmi, quando si racconta una storia (in un libro, in un film, anche semplicemente una favola), in narratologia esiste un meccanismo, che da sempre l’inconscio collettivo approva, che si chiama “sospensione dell’incredulità”.
Che, detta semplice, è una sorta di patto tra lettore e scrittore: tu mi racconti una bella storia e io, per divertirmi, metto da parte lo scetticismo.
E a questo punto lo scrittore, proprio in virtù di questo patto, può raccontare di tutto, pure che un elefantino può volare o che un burattino di legno parla come un bambino.
Perfetto.
Ma a tutto c’è un limite, o no?
E, a mio avviso, l’autore nella seconda parte del libro dimentica la regola della coerenza narrativa tirando fuori dal cilindro retroscena insospettabili e false piste ancora più improbabili e la trama inizia a ruzzolare.
Ma credetemi, ruzzola di brutto e il lettore per inseguirla rischia di rompersi l’osso del collo.
Quindi in finale il mio è un boh con tendenza al no.
Marie Elisa Aloisi