Biennale Architettura 2023: The Laboratory of the Future is here
Architettura, concept, clima, acqua, desertificazione, decarbonizzazione, concept artistici e idee all’avanguardia. Dati, idee, suggestioni. Dopo due giorni di pre-apertura della Biennale 2023 si esce “ubriachi” di energia e sensazioni. Di incontri. Di belle persone. Ma la Biennale 2023, soprattutto, si presenta al mondo come agente di cambiamento.
Si è aperta ufficialmente oggi, sabato 20 maggio, la 18. Mostra Internazionale di Architettura. 64 le nazioni partecipanti, 27 distribuite nei Padiglioni ai Giardini, 22 all’Arsenale e 14 dislocate negli angoli più caratteristici del centro storico di Venezia. Per la prima volta arriva il Niger, Panama in questo 2023 si presenta da solo e non come I.I.L.A., ovvero organizzazione internazionale italo-latino-americana, torna la Santa Sede con un Padiglione all’Isola di San Giorgio Maggiore.
Avremo il tempo di raccontarvela tutta – la Mostra Internazionale chiude il 26 novembre prossimo – segnalando fin d’ora quello che ci ha colpito di più, come cloud-to-ground, ovvero il suono dei flussi di dati – sembra il canto delle sirene – nel Padiglione di Israele il cui ingresso è letteralmente cementato per la prima volta nella storia, snodandosi quindi tra aria e cemento in un’idea innovativa e incredibile. O il suggestivo progetto dei Paesi Bassi-Paesi Nordici mostrata al mondo attraverso strutture primordiali con Joar Nango – Girjegumpi: The Sámi Architecture Library. O ancora Huussi-Imagining the Future History of Sanitation, il concept finlandese all’insegna della sostenibilità, che continuerà a vivere proprio a Venezia dopo la chiusura della mostra.
Ancora gli Emirati Arabi Uniti – Aridly Abundant, l’Arabia Saudita che con Irth ارث esplora l’Eredità dei Materiali di cui vi racconteremo, l’Uzbekistan – Unbuild Together, Archaism vs Modernity, l’Argentina con El Futuro del Agua curato da Diego Arraigada. L’incredibile progetto di riqualificazione della Universidad Central de Venezuela, Patrimonio de la Humanidad en recuperación che non può essere descritto in poche righe, tanto ci ha affascinato.
Così come il Barhain – Sweating Assets, la Svizzera – „Neighbours“, l’Uruguay con En Ópera – Escenarios futuros de una joven Ley Forestal, che attraverso un filmato non propone soluzioni ma invita il visitatore a porsi domande, a confrontarsi, come hanno spiegato i curatori.
I materiali: legno, terra, argilla, led, tessuti, tubolari in acciaio, vetro, pietre. C’è tutto e niente in un continuum spazio-temporale che, ai Giardini, accompagna nella prima fase il visitatore attraverso un percorso concettuale che coniuga arte e architettura in un immaginifico viaggio voluto dalla curatrice di quest’edizione, la scrittrice e architetto scozzese con cittadinanza ghanese Lesley Lokko. All’inizio si arriva anche a chiedersi perché, ma via via che si dipana il progetto, tutto assume un significato profondo.
Che ci piace. Molto.
Tanti giovani, tanta buena onda, tanta voglia di spiegare il proprio concept e il proprio lavoro. Tanta intenzione, insomma, di rappresentare e raccontare il proprio Paese suscitando interesse e curiosità. Esperimento perfettamente riuscito, per noi.
“La visione di una società moderna, diversificata e inclusiva è seducente e persuasiva, ma finché rimane un’immagine, resta solo un miraggio. È necessario qualcosa di più di una rappresentazione e gli architetti, storicamente, sono attori chiave nel tradurre le immagini in realtà” Lesley Lokko
La Mostra Internazionale è concepita come “una sorta di bottega artigiana, un laboratorio in cui architetti e professionisti provenienti da un ampio campo di discipline creative tracciano un percorso fatto di esempi tratti dalle loro attività contemporanee che il pubblico, composto da partecipanti e visitatori, potrà percorrere immaginando da sé cosa può riservare il futuro”. Lesley Lokko
“Che cosa significa essere un agente di cambiamento? Negli ultimi nove mesi, in centinaia di conversazioni, messaggi di testo, videochiamate e riunioni – ha ricordato Lesley Lokko, – è emersa più volte la domanda se esposizioni di questa portata, sia in termini di emissioni di carbonio sia di costi, possano essere giustificate. A maggio dell’anno scorso, in occasione dell’annuncio del titolo, ho parlato più volte della Mostra come di “una storia”, una narrazione che si evolve nello spazio.
Oggi ho una visione diversa. Una mostra di architettura è allo stesso tempo un momento e un processo. Prende in prestito struttura e formato dalle mostre d’arte, ma se ne distingue per aspetti critici che spesso passano inosservati. Oltre al desiderio di raccontare una storia, anche le questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione sono centrali nel modo in cui una mostra di architettura viene al mondo, eppure vengono riconosciute e discusse di rado. È stato chiaro fin dal principio che The Laboratory of the Future avrebbe adottato come suo gesto essenziale il concetto di cambiamento.”
LA STRUTTURA DELLA MOSTRA
“The Laboratory of the Future è una mostra divisa in sei parti. Comprende 89 partecipanti, di cui oltre la metà provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana. L’equilibrio di genere è paritario e l’età media dei partecipanti è di 43 anni, mentre scende a 37 nella sezione Progetti Speciali della Curatrice, in cui il più giovane ha 24 anni. Il 46% dei partecipanti considera la formazione come una vera e propria attività professionale e, per la prima volta in assoluto, quasi la metà dei partecipanti proviene da studi a conduzione individuale o composti da un massimo di cinque persone. In tutte le sezioni della Mostra, oltre il 70% delle opere esposte è stato progettato da studi gestiti da un singolo o da un team molto ristretto”, spiega ancora Lokko.
“Al cuore di ogni progetto c’è lo strumento principe e decisivo: l’immaginazione – continua. – È impossibile costruire un mondo migliore se prima non lo si immagina. The Laboratory of the Future inizia nel Padiglione Centrale ai Giardini, dove sono stati riuniti 16 studi che rappresentano un distillato di force majeure (forza maggiore) della produzione architettonica africana e diasporica.
Si sposta poi nel complesso dell’Arsenale, con la sezione Dangerous Liaisons (Relazioni Pericolose) – presente anche a Forte Marghera, a Mestre – affiancata a quella dei Progetti Speciali della Curatrice, che per la prima volta è una categoria vasta quanto le altre. In entrambi gli spazi sono presenti opere di giovani “practitioner” africani e diasporici, i Guests from the Future (Ospiti dal Futuro), il cui lavoro si confronta direttamente con i due temi della Mostra, la decolonizzazione e la decarbonizzazione, fornendo un’istantanea delle pratiche e delle modalità future di vedere e di stare al mondo.
“Abbiamo espressamente scelto di qualificare i partecipanti come “practitioner” – chiarisce infine la curatrice – e non come “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “architetti del paesaggio”, “ingegneri” o “accademici”, perché riteniamo che le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione diversa e più ampia del termine “architetto”.
cricol
I PADIGLIONI
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