Non è divertente continuare a sparlare dei vari remake che la Disney sta mettendo in atto dei suoi grandi classici: prodotti di scarsa mediocrità che uccidono tutta la magia dei cartoni originali. Sembra però che con l’ultima fatica Pinocchio (2022) qualcosa si sia rotto definitamente.
Non si vuole qui parlare dei vari effetti visivi non azzeccati (come lo stesso protagonista, il burattino Pinocchio, assolutamente non credibile sullo schermo), o quello che è stato il grande scandalo della fata azzurrina interpretata da una donna di colore con i capelli completamente rasati. Il problema è molto più profondo di questo.
Bisogna purtroppo fare un piccolo paragone tra il libro di Carlo Collodi che ha dato l’ispirazione per il classico Disney del 1940 e per l’odierno remake. È vero che il film è un prodotto a sé e non andrebbe comparato alla sua controparte romanzata, ma in questo caso è necessario per sottolineare la gravità della questione.
Le fiabe hanno sempre avuto un obiettivo catartico e pedagogico, insegnare al bambino le responsabilità che egli ha e poi avrà da adulto; è un primo step verso il mondo dell’etica e della socialità, verso la maturazione. Scrive il filosofo danese Kierkegaard che a raccontare male le favole si creano dei propri e veri “danni” nei bambini; andare quindi a raccontare la storia promulgata dal nuovo Pinocchio risulta un vero e proprio pericolo per le nuove generazioni, contrapposto al capolavoro dello scrittore toscano.
Vogliamo qui prendere due particolari della pellicola del 2022. Il primo è la parentesi riguardante la scuola.
Nel romanzo, Geppetto, scultore e padre di Pinocchio, vende la propria giacca per procurare al figlio di legno il materiale scolastico, che puntualmente il protagonista vende per andare ad assistere lo spettacolo di Mangiafuoco.
Nel film, Pinocchio non pensa assolutamente di vendere i suoi sudati libri (procurati dal padre senza alcuna apparente fatica), ma, anzi, con passo convinto raggiunge la scuola. Ma è proprio il professore che butta fuori Pinocchio dalla sua classe perché fatto di legno.
Non è tanto questa parentesi di forzata sottolineatura del problema dell’inclusività (sei diverso quindi non puoi stare insieme a noi) condita da una narrazione quanto più infantile e semplice possibile, ma è il ruolo della scuola che viene letteralmente distorto.
In Collodi, è la cultura, la scuola in senso più lato possibile, a rendere Pinocchio un bambino vero, a rendere il burattino una persona rispettabile e che soprattutto rispetta gli altri. Per crescere c’è bisogno di fatica, di studio. Per il nuovo Pinocchio, la scuola sembra diventare il male, in quanto è l’organo per eccellenza che discrimina e giudica – si crea quindi un allontanamento dalle “fonti ufficiali”, dagli organi pubblici messi a disposizione per l’individuo, portando questo, alle sue estreme conseguenze, a non accettare niente, o nessuna informazione, da voci ufficiali o professionali.
Questo punto si collega direttamente al secondo, però primario, problema della nuova narrazione: Pinocchio. Il piccolo burattino di legno non ha bisogno di crescere, poiché egli, altro non è, che la vittima del mondo che lo circonda. Egli è un angelo sin dall’inizio, e non si capisce quindi il perché dall’atto della creazione di Geppetto non sia uscito un bambino in carne ed ossa (infatti – piccolo “spoiler” – il film non si chiude con la trasformazione di Pinocchio in bimbo vero, perché si è “accettato così com’è”, mandando in frantumi il vero insegnamento della favola – sembra ora che crescere sia una cosa sbagliata). Nel romanzo, il protagonista è una persona che noi definiremmo senza tanti problema “cattiva”, immatura, a tratti crudele (arriva persino ad uccidere), idiota; alla fine avviene la trasformazione in bimbo perché lui stesso è cambiato, ha iniziato a rispettare il prossimo. Nel film qualsiasi intento pedagogico viene meno, gettato fuori dalla finestra, per privilegiare una narrazione rassicurante, che come una balia ti viene ad accarezzare sussurrandoti che tutto va bene e che sono sempre gli altri i cattivi, di certo non tu – per questo Pinocchio non si è trasformato, perché in lui non è cambiato niente. Questa narrazione toglie le responsabilità agli individui. Mentre il Pinocchio del romanzo pagava amaramente per tutte le sue azioni (similmente in Arancia Meccanica, in cui tutti i nodi vengono al pettine, dove si capisce che ciò che si semina si raccoglia), il Pinocchio d’oggi non deve combattere per diventare qualcuno ma esseri umani ci si diventa, non si nasce.
La nuova narrazione di Pinocchio, riprendendo un’altra volta il vocabolario di Kierkegaard, crea dei veri e proprio danni, deresponsabilizza e crea un’allergia per la cultura e per il lavoro che una persona dovrebbe compiere su se stessa.
Il nuovo Pinocchio sembra una di quelle persone che si comporta in modo dubbio per poi giustificarsi con il fatto che è il suo segno zodiacale che gli fa fare così e che gli fa capitare le cose brutte della vita.
Matteo Abozzi