Gli usi, le funzioni, i manufatti più importanti Il valore scultoreo dei bastoni del comando esposti in mostra è componente fondamentale della loro identità. L’abilità scultorea degli intagliatori di questi straordinari manufatti è talvolta impressionante, ma non si trattava di semplici esperti: nelle lingue oceaniche i termini “esperto” o “specialista” includevano anche il nostro concetto di “sacerdote”, alludendo a una dimensione religiosa di queste figure.
Si trattava cioè di soggetti cui veniva anche riconosciuto un importante ruolo di mediazione tra l’ordinaria esistenza quotidiana e il regno delle potenze superiori, responsabili della prosperità e produttività della vita dell’uomo. E’ in parte quello che molti isolani del Pacifico intendono per “mana“: un potere che trascende le qualità umane o la casualità meccanica. Inoltre trattandosi di un prodotto della natura, il processo di realizzazione di questi manufatti, interrotto più di un secolo fa, richiedeva un iter attento e i materiali da cui erano ricavati – alberi e ossa di mammiferi marini a cui a volte si aggiungevano pietre e conchiglie – dovevano essere acquisiti e modificati seguendo un rituale tradizionale.
Molte informazioni, conoscenze e saperi ormai sono andati perduti, cancellati dalla colonizzazione europea e dall’azione dei missionari nei secoli scorsi; persino la terminologia usata dagli indigeni per indicare le diverse tipologie di mazze, considerata anche l’eterogeneità dei luoghi di produzioni e l’enorme numero di lingue dell’Oceania (all’inizio dell’Ottocento persino Vanuatu, un arcipelago relativamente piccolo, aveva oltre duecento lingue attive su una popolazione di nemmeno 150.000 abitanti, mentre si stima che la Nuova Guinea abbia oltre mille lingue distinte), appare oggi di difficile ricostruzione. Ciò che risulta evidente e sorprende è in ogni caso l’eccezionale equilibrio di molte di queste sculture che spaziano dai 50 cm agli oltre 3 metri, la fluidità delle forme, la meticolosità dell’intaglio, della lucidatura e degli ornamenti, la varietà delle tipologie.
I bastoni erano anche armi – altro tema su cui si sofferma la mostra – e molti furono fabbricati pensando a questa funzione, anche se non tutti furono usati in combattimento. Bastoni di diversi tipi erano diffusi ovunque in Oceania per far fronte alle tante guerre che tra Sette e Ottocento animarono anche il Pacifico.
Dalle corte clave patu di Aotearoa Nuova Zelanda, alle mazze di media lunghezza presenti in molti luoghi, fino alle lunghe lance delle isole Australi e Cook, la maggior parte di queste era congegnata per adattarsi a differenti tecniche di combattimento che in alcuni casi prevedevano mosse e finte codificate. In Aotearoa Nuova Zelanda, per esempio, l’uso di bastoni da combattimento come taiaha, tewhatewha e pouwhenua ammirabili in mostra, implicava velocissimi movimenti atletici che oggi ritroviamo nella sfida del wero, rivolta come saluto formale ai visitatori di riguardo.
Che fossero o meno impiegati in combattimento, moltissimi bastoni venivano comunque usati come accessori di costumi e in esibizioni di vario genere, talvolta grandiose e impressionanti come quelle riportate dalle cronache di alcuni missionari della seconda metà dell’Ottocento.
Qui brandire questi bastoni del comando era segno di forza, di potere e di prestigio e anche a questo aspetto viene dedicata una sezione della mostra. La letteratura marchesana accenna a danze e parate con bastoni, organizzate sia prima di un combattimento sia per festeggiare una vittoria.
“È in queste occasioni – scrive Steven Hooper – che ùu e parahua, troppo ingombranti e preziose per essere messe a repentaglio in scaramucce sulle montagne, sarebbero apparse nella loro forma migliore, tirate a lucido e splendenti.”
Non solo: le danze erano occasione per sfoggiare manufatti ispirati alle mazze. Nelle danze marziali organizzate a Makira nelle isole Salomone si usava per esempio una mazza-scudo di forma ricurva che era in grado di deviare le zagaglie e servire anche da arma offensiva. Dalla stessa area provengono “bastoni da danza” ricurvi, di dimensioni minori, spesso fittamente decorati con intagli e/o intarsi, ma troppo fragili per qualsiasi funzione in combattimento e dunque chiaramente realizzati esclusivamente per la danza.
Molti bastoni del comando erano “scettri cerimoniali” e più che essere destinati ai combattimenti erano un’ostentazione con l’intento soprattutto di proiettare un’immagine di autorità e status. Pensiamo all’enorme Siriti, pesante mazza a due mani alta 152 cm. proveniente dal British Museum, tra le più grandi rappresenta nel suo insieme una figura maschile stilizzata. In tutto il Pacifico le dimensioni e la forma di un bastone, il materiale di cui era realizzato e il suo grado di elaborazione – con intarsi o aggiunte di materiali di grande pregio come conchiglie, piume o avorio di balena – veicolavano messaggi sulla condizione sociale di chi lo possedeva o custodiva.
In molti luoghi la superficie delle mazze veniva decorata con materiali associati al mare, quali frammenti di conchiglia o denti di capodoglio e in Polinesia il mare e i materiali derivanti da quell’ambiente, considerato sacro, erano associati ai capi e alla loro autorità.
Eccezionale manufatto esposto in mostra, oltre che vera opera d’arte, è una Bulikia di collezione privata, una mazza con 74 intarsi in avorio e osso di balena delle Figi (fine XVIII inizi XIX secolo) prezioso dono diplomatico per sancire un’alleanza. Entrata in possesso del primo governatore residente delle Figi, Sir Arthur Gordon, nel 1875-1876, poco dopo il suo arrivo nell’arcipelago quale rappresentante personale della regina Vittoria nella nuova colonia, è probabile infatti che gli sia stata donata come pegno di fedeltà da un capo locale. Il bastone figura in un acquerello dipinto all’epoca da lady Constance Gordon Cumming ed era esposto nel “museo” della residenza governativa alle Figi.
In ogni caso che si trattasse di armi reali o di mazze da esibire, due elementi appaiono fondamentali in questi affascianti e ancora misconosciuti oggetti oceanici: la relazione con il divino e il mondo degli avi, nonché la ricchezza di “decorazioni” della superficie dei manufatti anche attraverso incisioni e raffigurazioni di cui spesso diventavano incarnazione. Da sempre, in tutti i diversi popoli e culture, i rapporti con le forze soprannaturali – dei, antenati o spiriti – sono stati considerati fondamentali per l’esito di una guerra.
È significativo che molti bastoni realizzati con grande attenzione e materiali pregiati presentino caratteristiche o forme antropomorfe: rappresentazioni di antenati, riferimenti a presenze ancestrali come mezzi per attivare un potere divino e svolgere un ruolo protettivo nei confronti di chi le detiene.
Gli stessi materiali utilizzati sono associati alla divinità e alla messa in atto del potere: in Polinesia la casuarina è una delle essenze più dure del Pacifico tropicale, comunemente detta legno ferro, mentre nelle Marchesi e nelle isole Cook il legno viene chiamato toa, lo stesso termine che si usa per designare i guerrieri di spicco. A Rarotonga, nelle isole Cook, la casuarina era utilizzata per creare immagini di divinità-bastone (pezzi davvero unici quelli provenienti dal British Museum) che a volte prendevano la forma di scettri, come si vede in mostra in un bellissimo esempio.
I bastoni in forma di scettro delle Cook testimoniano come le fogge si siano adattate alle immagini sacre, mentre alcuni speciali bastoni di Tonga venivano chiamati hala e usati dai sacerdoti per la divinazione e come strumenti di comunicazione con le divinità ancestrali.
Anche l’attenzione prestata alla superficie delle mazze ben al di là di qualunque funzione pratica – incise, oliate con olio di kukui o di cocco, levigate, intarsiate, rivestite oppure decorate da ciuffetti di fibre o piume e magari ammantate dal fumo delle lampade durante le cerimonie – mostra il riconoscimento o la volontà di attivazione di un potere “altro”, di un’efficacia particolare, di una protezione superiore. Alfred Gell lo chiamava “avvolgimento nelle immagini”.
Ci sono mazze tonghiane le cui complesse decorazioni esteriori equivalgono ai tatuaggi sui corpi umani. Molte di queste elaborazioni tongane, come nel caso del bellissimo ‘akau di Collezione Ligabue, prendono la forma di pannelli di incisioni, che spesso inglobano glifi raffiguranti una serie di forme geometriche, umane e animali. Le figure umane (nell’oggetto conservato a Venezia sono ben 17) sono mostrate nell’atto di compiere varie attività, non tutte di facile comprensione.
In altri casi i disegni superficiali possono essere enigmatici, come nelle celebri lance dai bordi dentellati delle isole Cook realizzate fino agli anni venti dell’Ottocento e del cui motivo distintivo non si conosce né l’origine né la fonte di ispirazione.
In mostra tra i vari esempi possiamo citare l’akatara prestata dal National Museum of Scotland di Edimburgo, una lancia alta quasi 2,5 metri, dalla lama con bordi a tripla seghettatura e colletto, con due occhi su ciascun lato che ricordano da vicino lo stile di occhio con pupilla, due palpebre e un’arcata sopraccigliare tipica delle divinità-bastone.
Molto resta ancora da decifrare delle culture dell’Oceania e delle produzioni materiali che ne sono il frutto. Molto è stato cancellato, ma tantissimo attende d’essere disvelato. Questa mostra e lo studio che l’accompagna, abbandonati i preconcetti del mondo occidentale, sono un passo importante in questa direzione.