Fino al 18 febbraio 2024 il Magazzino delle Idee di Trieste presenta India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri, a cura di Filippo Maggia, prodotta e organizzata da ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia, prima mostra a raccogliere e a presentare a livello europeo settant’anni di fotografia indiana in un unico grande progetto espositivo composto da oltre 500 opere tra fotografie, video e installazioni.
Attraverso racconti visivi, esperienze, testimonianze e indagini, India oggi traccia un percorso storico-sociale che muove dal Mahatma Gandhi e dal decennio immediatamente successivo all’indipendenza dall’Impero britannico nel 1947 fino ai nostri giorni. Dal passato postcoloniale all’affermazione fra le maggiori economie internazionali, la mostra testimonia la radicale trasformazione di cui è protagonista il subcontinente indiano, forte di uno sviluppo esponenziale che deve fare i conti con profonde contraddizioni e disuguaglianze sociali. A cogliere i molteplici aspetti di questa evoluzione, fra tradizione e cambiamento, è lo sguardo fotografico di diciassette artisti in mostra: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose, Uzma Mohsin.
Autori affermati e nuovi protagonisti della fotografia indiana contemporanea, interprete sempre più attenta e profonda del presente e del prossimo futuro che contraddistinguono il subcontinente indiano.
“Il processo di repentina e inarrestabile evoluzione economica e industriale in atto in India dalla fine dello scorso millennio – scrive Filippo Maggia nel suo testo di introduzione al catalogo – sta provocando gravi conseguenze sia sociali, quali questioni di genere, identità e religione, sia ambientali. L’inevitabile spopolamento delle campagne e delle zone rurali, dalle pendici dell’Himalaya sino all’estremo sud del Kerala, ha portato al sovraffollamento di metropoli quali Mumbai, Nuova Delhi o Calcutta, con un forte impatto sull’ambiente, che alle volte implica addirittura lo spostamento coercitivo di milioni di persone da una regione all’altra. È di questi temi che si occupa oggi principalmente la fotografia indiana, ormai emancipata dall’immagine tradizionale dell’esotica India colorata di salgariana memoria”.
La mostra presenta le opere dei 17 artisti seguendo un ordine cronologico che avanza per decenni, dalla metà del ventesimo secolo fino al nuovo millennio, lasciando poi ampio spazio ai lavori degli autori contemporanei. Un racconto fatto attraverso le immagini che gli artisti hanno scattato vivendo l’esperienza diretta, del momento consapevolmente partecipato e restituito attraverso la fotografia, adottata in questo caso come testimone. Nel percorso espositivo ogni autore viene introdotto da uno statement che descrive la genesi e lo sviluppo della ricerca del lavoro svolto.
Completano la mostra 15 interviste audio video realizzate in India lo scorso marzo con gli artisti.
Si parte da Kanu Gandhi, nipote del Mahatma, che ha ritratto in pubblico come in privato Mohandas Karamchand Gandhi negli anni in cui professava la disobbedienza civile, viaggiando in treno da una città all’altra e incontrando politici e militanti, raccogliendo emozionanti immagini dell’India impaziente nel volersi affrancare dal dominio britannico, pronta e solerte nel seguire il suo leader e abbracciare l’attivismo nonviolento da lui esercitato.
Con Bhupendra Karia, insegnante, teorico, curatore (partecipa alla fondazione dell’International Center of Photography di New York con Cornell Capa) la fotografia assume nuove valenze: nell’esplorazione dell’India rurale post indipendenza, visitando piccole città e villaggi, Karia associa a un’indagine di carattere antropologico e documentaristico personali riflessioni sulle sfide sociali, politiche e ambientali che il subcontinente dovrà ora affrontare. Gli anni Settanta sono gli anni di formazione di Pablo Bartholomew: Outside In è la sua narrazione in prima persona di dieci anni trascorsi tra Delhi, l’allora Bombay, e Calcutta con l’entusiasmo e l’incoscienza caratteristici di un ventenne affamato di vita, di strada, di esperienze, proiettato verso la scoperta e la sperimentazione, abile nell’inventarsi inchieste in ambiti sociali sovente difficili da fronteggiare.
A cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta Ketaki Sheth annota sulla pellicola 35 millimetri la metamorfosi in atto già da qualche anno a Bombay a seguito del boom edilizio e del massiccio arrivo di immigrati da altri stati indiani, attratti dalla forza propulsiva della metropoli del Maharashtra. Le sue immagini fortemente contrastate coniugano tradizione e cambiamento, in un classico esercizio di street photography dove l’uomo è sempre al centro.
Manifesto esplicito di un primo importante cambiamento nel Paese è il lavoro di Sheba Chhachhi, attivista e cronista del movimento femminista indiano. Particolarmente interessante è la serie Seven Lives and Dreams avviata all’inizio degli anni Novanta, in cui la Chhachhi, con la collaborazione di sette donne, abbandona l’approccio reportagistico per riflettere sulla natura del reale comunemente percepito in un esercizio di stage photography. Raghu Rai, considerato oggi unanimemente uno dei maestri della fotografia indiana (dal 1977 è membro dell’agenzia Magnum, ove fu introdotto da Henri Cartier-Bresson), riunisce nelle sue fotografie i quattro decenni che intercorrono tra gli anni Sessanta e il Duemila. La sua narrazione per immagini del subcontinente indiano, pur scorrendo secondo un registro documentaristico che annovera non a caso i celebri reportage su Madre Teresa di Calcutta o il disastroso incidente industriale di Bhopal del 1984, presta molta attenzione alla costruzione formale della scena ripresa.
Nel nuovo millennio la fotografia indiana inizia a circoscrivere il proprio campo d’indagine affrontando temi e questioni urgenti come, ad esempio, i diritti della comunità LGBT. Diari privati, raccolte di immagini e album fotografici pazientemente assemblati negli anni: così si presentano i lavori di Sunil Gupta, Anita Khemka,
Serena Chopra e Dileep Prakash, storie individuali che assumono valore universale. Anita Khemka ci ricorda che gli Hijra (transessuali) esistono da secoli nella sottocultura del subcontinente indiano, tanto da essere sovente citati nei racconti della tradizione popolare e in letteratura. Sono tollerati e vivono di espedienti, in diversi casi riunendosi fra loro in comunità dirette da un guru. Nepal, Pakistan, Bangladesh e India hanno riconosciuto gli Hijra come appartenenti a un terzo sesso transgender. Per oltre due decenni la fotografa ha seguito l’evoluzione di Laxmi che ha fatto carriera in politica, e oggi presenta la sua vita in un’installazione che vuole restituire il personaggio per quello che è, nella sua naturale schiettezza e genuinità, oltre la diversità.
Serena Chopra per otto anni ha frequentato il campo profughi di Majnu ka Tilla, raccogliendo immagini e testimonianze sonore, scritti e disegni realizzati dagli esuli tibetani. Il suo non è solo un diario, ma un contenitore di memorie e un termometro generazionale, utile a misurare quanto la cultura tibetana riesca a sopravvivere e tramandarsi di generazione in generazione pur lontano dal proprio Paese d’origine.
Dileep Prakash ha speso oltre due anni viaggiando e visitando diverse comunità, con l’obiettivo di capire quanto il legame fra due differenti culture perduri vivo e autentico. In particolare, ha indagato sulle eredità postcoloniali, le comunità anglo-indiane formatesi nel corso di un secolo di commistioni fra inglesi e indiani. I suoi ritratti, più che riprendere uomini, donne, giovani e anziani, coppie e nuclei familiari, sono frutto di attente osservazioni ambientali e valutazioni collettive.
Vicky Roy scappò di casa all’età di undici anni e visse per le strade di New Delhi fino a che venne salvato da un’organizzazione no profit che lo aiutò e lo sostenne negli studi. Il suo lavoro come fotografo affronta un dramma irrisolto e di costante attualità della società indiana: sono oltre dieci milioni i bambini indiani orfani o abbandonati che vivono per strada mendicando, vittime di abusi e sfruttamento. Le sue fotografie restituiscono un’immagine piena di vita e di speranza di questi adolescenti, vogliono essere un appello per riuscire a dare loro un futuro, soddisfare le loro speranze e sogni.
Amit Madheshiya nelle sue fotografie ritrae i volti perduti, stupiti e rapiti di indigeni che assistono alla proiezione di film sotto tendoni improvvisati di cinema itineranti. Sono in gran parte allevatori di bestiame e agricoltori e rappresentano l’altra faccia dell’India contemporanea, quella che vive nei villaggi e assiste, impotente, alla grande trasformazione in atto nel subcontinente. Di loro trattano anche i lavori di Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka e Soumya Sankar Bose.
Al centro del lavoro di Senthil Kumaran Rajendran c’è la difficile convivenza fra tigri e umani, un conflitto causato da fattori quali l’aumento demografico e i conseguenti nuovi insediamenti (sono circa 56.000 le famiglie che vivono all’interno delle riserve naturali), la deforestazione, il ricollocamento delle 3.000 tigri selvatiche indiane in spazi sempre più contenuti, in condivisione o ai confini con i campi coltivati, i pascoli del bestiame, fiumi e laghi dove si pratica la pesca.
L’installazione multimediale di Vinit Gupta è un invito per la costituzione di una coscienza ecologica collettiva capace di opporsi ai crescenti interessi industriali che stanno distruggendo l’ambiente, sconvolgendo identità, memorie e tradizioni di intere comunità fino ad allora vissute in perfetta armonia con la natura. Nel suo lavoro, Vinit Gupta testimonia le lotte condotte dalle popolazioni indigene della città mineraria di Singrauli.
Ishan Tanka vuole testimoniare le proteste dei jal satyagrahis e degli adivasi: i primi si oppongono alla costruzione di un imponente progetto di sbarramento per la costruzione di dighe e conseguente allagamento di terre e spostamento di centinaia di migliaia di persone, i secondi lottano contro lo sfruttamento delle loro terre ricche di carbone e ferro.
Per non dimenticare, e per ricordare quanto il passato ciclicamente ritorni con le medesime modalità, ragioni e obiettivi, Soumya Sankar Bose ha ricostruito attraverso testimonianze dirette orali e video, ripercorrendo i luoghi e incontrando i superstiti, il cruento e disumano massacro di Marichjhapi, a Sundarban, nel Bengala occidentale, perpetrato dalle forze di polizia contro i rifugiati bengalesi di casta inferiore nel 1979.
Uzma Mohsin con il suo coraggioso lavoro dall’emblematico titolo Songkeepers analizza i meccanismi che regolano la protesta civile, e soprattutto le conseguenze che questa azione provoca oggi in India. Il fatto che il dissenso sia considerato al pari di “slealtà, antinazionalismo e sedizione” come lei stessa rammenta, è un indice estremamente allarmante per la tenuta democratica di una nazione.
“Per un’India che avanza, dunque, che morde affamata il domani, ce n’è un’altra che soffre, tenuta in disparte a guardare e subire i danni collaterali che il progresso e la necessità di avere largo consenso popolare portano con sé – conclude Filippo Maggia – Come sarà l’India del prossimo decennio, quando siederà al tavolo con le altre potenze economiche mondiali? Hum Dekhenge. Hum Dekhenge, recita in lingua urdu una poesia di Faiz Ahmad Faiz. Vedremo, vedremo…”.
Gli artisti in mostra: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose, Uzma Mohsin.