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Intervista a Marco Scarlatti

Romanzo finalista al Premio Tedeschi nel 2022, La torre dei matti di Marco Scarlatti ha inaugurato la collana Odissea Crime di Delos Digital, curata da Maria Elisa Aloisi. Nel consigliarne la lettura agli amanti non solo del giallo ma della bella scrittura e delle storie appassionanti, vi propongo l’intervista a cui l’autore ha accettato di rispondere.

Ciao Marco, parlaci un po’ della Torre dei Matti. Com’è nata l’idea? E qual è stato il percorso editoriale che ha condotto il romanzo fino alla pubblicazione?

Ciao. Innanzitutto vi ringrazio per lo spazio che avete deciso di dedicarmi.

Questo romanzo è in realtà la fusione di due storie, nate da due idee separate.

La prima era vedere cosa potrebbe accadere a delle persone costrette a convivere per un tempo anche breve in un luogo isolato. Uno schema simile a quello che muove molti reality: senza telecamere, però, e con l’aggravante che i “reclusi” sono divisi in due gruppi che non si fidano l’uno dell’altro. Per certi aspetti, voleva essere una sorta di metafora della cultura del sospetto che stava montando in certa cultura italiana.

La seconda idea, più intima, era vedere il possibile comportamento di un uomo davanti alla profezia nefasta di un’indovina le cui predizioni precedenti s’erano avverate. Una via di mezzo fra le streghe che compaiono all’inizio del Macbeth e lo schema circolare del destino di Edipo, la cui storia – nella versione di Sofocle – è considerata da molti il primo giallo della letteratura.

Nella Torre dei Matti non compaiono poliziotti, avvocati, medici forensi, giornalisti di nera e altri professionisti che hanno a che fare abitualmente col crimine, e così il ruolo del detective è incarnato da un medico, Matteo Morabito, che è anche il personaggio più generoso nel prestare il suo punto di vista al lettore. Quando gli avvenimenti precipitano, e i misteri s’accavallano, si rende conto che spetta a lui risolvere il caso, non fosse per la conoscenza topografica del luogo dove si stanno verificando gli omicidi, visto che il casolare è di sua proprietà.

Mi sono reso conto d’avere fra le mani un giallo, anche se non nel senso classico, quando ho cominciato il processo d’unione delle due storie. È stato a quel punto che ho pensato di partecipare al Tedeschi. Erano gl’inizi del 2022, e fino a quel momento il testo più vicino a un giallo che avessi scritto era Giovani come la notte, che però era un noir metropolitano, con protagonisti soltanto adolescenti.

Quando sul blog del Giallo Mondadori ho letto il mio nome tra i finalisti, sono rimasto letteralmente a bocca aperta.

Circa un mese più tardi, quando è stato decretato il vincitore di quell’edizione (Matteo Guerrini col suo Zoo), ho avuto la tentazione di presentare il romanzo “a spaglio” ad altri editori. Per fortuna mi sono trattenuto, convinto d’aver scritto qualcosa che avrebbe potuto trovare una strada meno fortunosa.

È stato grazie a Maria Elisa Aloisi, della quale avevo appena letto Il canto della falena (Mondadori) e che ha apprezzato il romanzo da subito, se la Torre dei Matti è uscito nella collana “Odissea Crime” di Delos.

Sei il vincitore del Gran Giallo Città di Cattolica edizione 2023. Con questo romanzo sei arrivato nella cinquina finalista del Premio Tedeschi 2022. Autore sia di romanzi che di racconti, dunque. Quali le insidie e i vantaggi dei due generi?

Quando si comincia a scrivere si ha la tentazione di credere che i racconti siano più difficili dei romanzi. È un’affermazione che si sente spesso, soprattutto tra i neofiti. E ci sono in effetti autori che sono diventati grandi grazie alla forma breve: Poe, Cechov, Carver, Alice Munro, Flannery O’Connor, Akutagawa.

Rispetto al romanzo, il racconto presenta l’evidente limite della lunghezza, ma offre il vantaggio d’un maggior controllo sulla storia, sulla costruzione dei personaggi, sulla gestione del punto di vista e sulla possibilità di lasciare maggior spazio al non detto.

Nelle storie di più ampio respiro, questi quattro elementi sono molto più difficili da governare. Scrivere un racconto, soprattutto se di genere, impone limiti di struttura e dimensioni che favoriscono la precisione della sintassi, l’ordito dell’opera e la creatività.

Anche se all’inizio del percorso di scrittore si tende a pensare il contrario, l’esperienza insegna che i limiti imposti dalla lunghezza, ma anche dal genere, dall’ambientazione storica e dalla caratterizzazione dei personaggi rappresentano uno stimolo alla fantasia.

Per una banale questione di dimensioni e di complessità strutturale, il romanzo dà allo scrittore l’apparente vantaggio di poter dire tutto quello che gli passa per la testa: ma è soltanto una trappola. Se si vuole scrivere un testo apprezzabile, soprattutto nel mondo iperveloce di oggi dove agli stessi articoli sul web si concede mezzo minuto di lettura, è necessario scrivere ogni pagina dosando al massimo parole ed effetti: il romanzo diventa così un gioco d’equilibri e pesi, dove è fondamentale destreggiarsi fra velocità e indugio, digressioni e improvvise accelerazioni.

Soprattutto oggi, coi lettori che sono compulsivi fruitori di internet e serie televisive, portati a confondere una descrizione poetica o una riflessione con una perdita di tempo. Sono propensi ad accettarle se stanno leggendo un classico, se stanno arrancando sulle pagine dell’Urlo e il furore o di Finnegans Wake, ma non sono così indulgenti con un autore di oggi, soprattutto se si occupa di letteratura di genere. È una lezione che come lettore conosco bene, mentre come scrittore fatico a metabolizzare perché per natura amo la lentezza e la circumnavigazione.

Spesso si suole distinguere gli scrittori in due categorie: architetti (detti anche plotter) o esploratori (detti anche pantser). A quale delle due categorie appartieni?

Per indole, sono certamente un pantser. Lo dimostra il mio stesso percorso di scrittore, che prima di approdare al genere crime ha sperimentato – e non per caso o per errore – altre narrative. Nella scrittura mi piace provare e godere di una buona dose di libertà. Purtroppo ho imparato a mie spese che non è un approccio vincente.

Il tempo mi ha insegnato che non è possibile scrivere un buon romanzo, soprattutto di genere crime, senza sapere dove si voglia andare a parare. Sarebbe come iniziare una partita di scacchi, o una guerra, senza una strategia. Mi piace ancora lasciarmi un margine di libertà, ma ormai non riesco a iniziare un romanzo senza aver prima messo mano al plot, almeno nelle sue linee essenziali.

Le grandi multinazionali spesso offrono corsi gratuiti ai manager ai quali viene insegnato che la vita aziendale è simile a un campo di battaglia. I prontuari del perfetto leader mutuano frasi e concetti dai testi classici del bushido. Evitando strumentalizzazioni o sovrinterpretazioni di testi che provengono da altre culture, credo che ogni scrittore dovrebbe conoscere, come un manager aziendale, le lezioni dei maestri di arti marziali.

Come si dice spesso, il genio è dieci per cento intuizione e novanta per cento sudore. Anche se all’inizio del proprio percorso artistico ognuno di noi ha pensato di essere il nuovo Shakespeare, il tempo ci ha portati a vederci con maggior modestia, e a dare importanza al duro lavoro, che è l’unica cosa che davvero conta anche nel mondo della scrittura.

Scrivi prevalentemente gialli e thriller, un genere narrativo che può contare su uno zoccolo duro di lettori. Qual è il motivo del successo della narrativa crime?

In uno dei suoi primi racconti, Clive Barker scrisse che non c’è piacere uguale alla paura, finché appartiene a qualcun altro. Credo che questa frase contenga quasi tutte le ragioni del successo del crime, anche se è stata scritta da un autore di libri e film dell’orrore.

Giallo classico, thriller e noir, che sono le principali declinazioni del genere, chiedono al lettore di raggiungere un solo obiettivo: risolvere il mistero insieme a colui che, nel libro, incarna il ruolo del detective.

In questo, la letteratura di genere, che nasce come letteratura popolare, stringe un patto molto forte col lettore. Anche quando si conosce l’assassino dalle prime pagine, come nei romanzi sui serial killer, il centro del libro è far sì che il lettore scopra le ragioni che hanno mosso il colpevole. Quanto più l’autore riesce a creare una strategia testuale convincente, tanto più il lettore si sentirà in empatia col protagonista, e vivrà insieme a lui, se non addirittura al posto suo, l’avventura che lo porterà a svelare il mistero.

Non sono un fautore della critica freudiana, ma credo che le storie crime siano amate perché scavano nelle zone più profonde di ciascuno di noi, che sin da bambini vorremo aprire quella dannata porta che scende nel buio della cantina.

Andrea Camilleri nella prefazione di “Come scrivere un giallo” di Patricia Highsmith consiglia di andare a scuola dai “grandi”. Quali sono gli autori che ti hanno ispirato?

Camilleri è certamente uno dei maestri a cui lui stesso fa cenno. I suoi romanzi migliori mi hanno insegnato l’equilibrio quasi geometrico fra dialogo, descrizione e azione. Insieme a Leonardo Sciascia e Manuel Vazquez Montalbàn costituisce un trittico di autori che ho amato e amo moltissimo. Fra gli italiani, nutro una profonda ammirazione anche per Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Loriano Macchiavelli e Stefano Di Marino, che non si possono però catalogare e definire in modo troppo semplice.

Più in generale, sono convinto che le migliori storie crime sono quelle che mettono in discussione i nostri schemi, l’idea di fondo che abbiamo di Bene e Male.

In questo, il genere ha fatto enormi passi avanti: è passato dal giallo alla Agatha Christie, che fornisce una visione efficace ma semplice delle cose (dove il detective riporta l’ordine in un mondo manicheo sconvolto da un evento criminoso), alle declinazioni più estreme, dove i paradigmi si rovesciano e i lettori vengono invitati a provare attrazione, se non ammirazione, per i cattivi. Un romanzo su tutti: il Silenzio degli innocenti, di Thomas Harris.

Amo le storie che, come nella tragedia classica (mi riferisco in particolare a Euripide), fanno fare cortocircuito alle nostre convinzioni più profonde. I milanesi ammazzano al sabato, del nostro Scerbanenco, credo sia una sorta di stella polare a cui ispirarsi.

Sono però altrettanto convinto che uno scrittore di genere è innanzitutto uno scrittore e basta. Lui per primo deve sentirsi così. E allora i grandi maestri non si possono limitare a quelli della tradizione del giallo e del thriller, ma sono tutti quegli scrittori che, per ragioni diverse, fanno parte del cosiddetto canone occidentale.

Ognuno di loro è in grado d’insegnare qualcosa di specifico, e di unico.

Per i dialoghi, come non pensare alla lezione degli autori americani, a partire da Hemingway e Fante arrivando a Bukowski, Elmore Leonard e il più attuale Lansdale?

Se voglio un esempio sul modo perfetto in cui un autore riesce a portarti con calma dal punto A al punto B non posso che ricordarmi di Anna Karenina; se voglio l’eleganza della frase, mi rifaccio a Proust, Flaubert, Tomasi di Lampedusa, Gesualdo Bufalino e Borges. Per la leggerezza, i maestri sono per me Salinger, Dickens e Lucia Berlin; per l’intreccio tra fantasia e realismo, Garcìa Marquez e Salman Rushdie; per la precisione psicologica, Moravia e Dostoevskij; per l’ardire degli argomenti, Tondelli e Pasolini; per la follia delle visioni, naturalmente Philip Dick e Jonathan Swift; per la struttura narrativa, Mentre morivo, di Faulkner, e Sotto il vulcano, di Malcom Lowry ; per la gioia che ho provato leggendoli, Tom Sawyer, Zanna Bianca, L’Isola del tesoro e La Guida galattica per autostoppisti, di Douglas Adams.

So che è una frase sciocca, ma come tutte le tautologie contiene un minimo di verità: tutti i grandi sono grandi maestri.

E i tuoi progetti futuri? Un piccolo spoiler: cosa bolle in pentola?

Ho appena terminato un romanzo che racconta di un uomo che si sveglia in un luogo che non conosce, in un tempo che non gli sembra il suo. Lui dovrebbe essere il detective, ma per la prima metà del romanzo è anche una possibile vittima.

Ha due caratteristiche forti: è un giornalista di nera che è anche youtuber e podcaster di storie crime, e in passato ha risolto un caso di omicidio servendosi dell’onironautica, l’arte di muoversi all’interno dei propri sogni, dei quali si serve per rivivere, in modo più lucido, quanto ha vissuto e investigato durante il giorno. Non mi risulta che esistano investigatori di questo tipo, per cui credo che sia una figura destinata a non piacere, o a essere molto apprezzata. Vorrei tanto che i lettori delle sue avventure, se mai ce ne saranno, instaurino con lui il patto emotivo che merita.

Per qualche mese, forse, non scriverò altro. Vorrei dedicarmi interamente alla lettura: per altre ispirazioni, e per ampliare il canone personale.

Poi credo che scriverò un altro giallo: un classico, stavolta. Magari ambientato negli anni novanta, quand’ero giovane e bello e internet ancora non esisteva. C’erano le cabine telefoniche, i motorini a miscela e le ragazze che masticavano Big Bubble su marciapiedi lucidi di pioggia.

Dio, quanto vorrei scrivere una storia così.

Sinossi

Era già accaduto agli inizi del Novecento: alcuni amici segregati loro malgrado nella Torre dei Matti, che oggi svetta su un antico casolare sperduto nelle campagne. La storia si ripete quando Matteo, con alcuni amici, si rifugia nell’edifico di proprietà della sua famiglia, per sfuggire alla fosca predizione di una cartomante, secondo cui il due novembre morirà qualcuno che non vede da tempo. Ma una volta nel casolare ecco la sorpresa: vi si sono rifugiati cinque ragazzi che appartengono a una comune, tipi loschi che forse nascondono qualcosa. Impossibilitati a fuggire quando la loro automobile viene danneggiata, Matteo e gli amici devono capire come affrontare il pericolo, soprattutto quando uno degli intrusi viene trovato morto all’ombra della Torre dei Matti.

Sono in trappola, con un temibile assassino fra loro, proprio allo scoccare del due novembre.

L’autore

Marco Scarlatti è nato nel 1973 a Roma, dove vive e lavora. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali il noir metropolitano Giovani come la notte (MDS, 2019) e il libro di fantascienza Il giorno dell’uragano (Kipple 2021), vincitore del Premio Kipple 2021. Col racconto Il buio sulle dune (Il Giallo Mondadori n. 1475, 2023) ha vinto la 50esima edizione del Gran Giallo – Città di Cattolica. Per Delos Digital ha pubblicato in versione ebook il saggio Jeeg Generation (2023). Il racconto Lo spettro dei sogni è apparso nella raccolta digitale Sorridi, bellezza! (Rizzoli, 2013). Con La torre dei matti è arrivato finalista al Premio Tedeschi 2022 del Giallo Mondadori.

Claudia Cocuzza

Sono una farmacista e una scrittrice. La domanda è: con due figlie, un marito, un cane e un lavoro così impegnativo, come fai anche a leggere, studiare e scrivere? Facile: non saprei vivere senza tutto questo.