Il romanzo, ambientato a Torino, narra dell’omicidio dell’architetto Garrone, personaggio squallido che vive di espedienti. L’architetto viene trovato ucciso in quello che pomposamente chiama il suo studio con il cranio sfondato da un fallo di pietra. Una denuncia fatta per vendetta da una coppia di servitori licenziati dalla signora Anna Carla Dosio, moglie di un ricco industriale, sposta l’attenzione della polizia sulla buona borghesia torinese. La signora Dosio insieme all’amico Massimo Campi, ha montato un “teatrino privato” nel quale mettono alla berlina i vizi, le affettazioni, il cattivo gusto dei loro conoscenti. Poiché Garrone è uno tra i personaggi più fastidiosi che lo animano, Anna Carla propone a Massimo, in una lettera non spedita ma ripescata nel cestino della carta straccia dai due inservienti, di “eliminarlo”. Da quel momento i due saranno coinvolti, loro malgrado, nell’indagine che, data la delicatezza della situazione, viene assegnata al commissario Santamaria, ritenuto l’uomo più adatto a gestire l’incresciosa vicenda perché secondo il modo di vedere dei suoi superiori, “conosce l’ambiente”.
Campi trascina stancamente una relazione con Lello Riviera, impiegato comunale con pseudo interessi intellettuali. Il giovane, avvertendo che la loro relazione è ormai alla fine, si appassiona al caso, per dimostrare ai colleghi di avere qualità di perspicacia e rinnovare l’interesse dell’amante nei suoi confronti. In realtà arriverà inconsapevolmente vicino alla verità, e per questo l’assassino di Garrone, vedendosi in pericolo, lo eliminerà seguendolo nel Balon, il mercatino delle pulci di Torino. Il commissario Santamaria è però anche lui vicino alla soluzione del caso che risolverà brillantemente ottenendo in premio l’ammirazione di Anna Carla che non esita a iniziare una relazione con lui.
Edito nel 1972, La donna della domenica può considerarsi il capostipite del giallo all’italiana. Un giallo certamente, ma soprattutto un buon libro che negli anni rimane ancora un testo di piacevole lettura anche per la sua completezza narrativa. La qual cosa lo pone al di sopra di certe prove di genere che irretiscono il lettore ricorrendo a scene di dubbio gusto con effetto splatter o di sadismo gratuito e ammennicoli vari, spogliata dai quali, della vicenda in questione, non rimane che poca cosa.
Il romanzo, ha il suo “marchio d’autore” in una narrazione condotta sul filo dell’ironia mista ad un umorismo garbato riscontrabile in tutta la produzione di Fruttero e Lucentini
- Non si scappa– ripeté Triberti – l’avvenire è nella cremazione. Tra cinquant’anni, nemmeno, sa come andrà a finire?–
- Nnnno..– balbettò Lello, pensando al peggio
- Ci manderanno a casa una bella scatoletta di plastica, con dentro le ceneri del parente ben pressate a macchina in un dischetto grande così, come una compressa di vitamina C.
Oltre a mantenere sempre vigile l’attenzione sull’intreccio ben congegnato sul doppio binario di quanto rivelato dai personaggi e di quanto è possibile dedurre dalle informazioni indotte da parte degli autori, lo sfondo è quello della Torino dei primi anni `70 proposta nella sua essenza più profonda:
Ti trovavi a camminare a sud di corso principe Oddone, per esempio, a ad un tratto dicevi, ecco, ci sono, […] questo è il quartiere più lugubre di Torino. Ma il giorno dopo una identica certezza ti fulminava mentre attraversavi via Gioberti o via Perrone o contornando l’ansa della Dora, fra certe villette ai margini del Valentino[…] Non era questione di quartieri ricchi e quartieri poveri[…] qui il lugubre, era distribuito con puntigliosa equità, era democratico. […] ma erano semplificazioni di nuovi arrivati, sfoghi di meridionali “ all’estero”. Dopo tanti anni che ci abitava [il commissario] sapeva che la leggendaria monotonia era un’invenzione di osservatori superficiali […] Sotto quell’apparenza così ovvia, di carta messa in tavola, Torino era una città per intenditori.
La stessa attenzione presenta l’analisi psicologica dei ceti sociali. Quello della piccola élite degli appartenenti alla “Torino bene”, in primo luogo:
La differenza tra chi contava e chi no, a Torino, era molto più difficile da stabilire che a Roma o a Napoli o a Milano.[…] con quelli dell’ “ambiente”, le cautele tradizionali non servivano. […]Non erano vendicativi, arroganti, non pretendevano deferenza, riguardi speciali e tantomeno inchini. Erano umilissimi i veri “ grandi “ di Torino ma appunto lì stava la differenza; non sentendosi superiori a te, gli dava un fastidio tremendo che tu potessi sentirti inferiore a loro[…] per tenerli buoni e cooperativi, dovevi ingegnarti di stare a tutti i costi e con tutti i mezzi a quella loro squisita finzione di parità.
Ma anche attenzione per il modo di pensare del torinese medio. Riguardo i meridionali, ad esempio, che in quegli anni di emigrazione interna rappresentavano una fetta della popolazione.
Vivere negli anni ’70 nella capitale industriale d’Italia, città dei grandi imprenditori Fiat e Olivetti, per chi provenisse da un qualsiasi luogo al di sotto di Roma era ancora una vergogna, tranne che per i pochi eletti come Santamaria, che, come già detto, conosceva “l’ambiente” e questo bastava perché lui adesso potesse continuare tranquillamente a portare i baffi, invece di tagliarseli come molti suoi colleghi che non volevano avere l’aria del questurino meridionale.
A Torino[Santamaria] aveva incontrato perfino dei pugliesi dei calabresi che parlavano dall’alto in basso dei “ terroni”[…] dopo un po’ che stavano qui, tutti cominciavano a cercare qualcuno che fosse più a sud di loro anche solo di mezzo chilometro.
E del resto come non compatirli questi meridionali “ rinnegati”, nei riguardi di un pregiudizio profondamente radicato, difficile da controbattere:
Trovò la sua 500 imbottigliata. […] Lello si guardò in giro irosamente. Non lo sapevano che la sosta in seconda fila era vietata? Certo che lo sapevano, ma se ne sbattevano l’anima. Erano selvaggi, per i quali gli altri neppure esistevano. Gente che fino a ieri viveva ancora nelle foreste della Calabria, nelle caverne della Sicilia. […] suonò il clacson con forza, cinque o sei volte. Niente. quello doveva starsene in qualche cantina, a sbaciucchiare i dodici bambini di sua sorella.[…]–Scusi, Neh!– disse in limpido dialetto piemontese un omaccione che arrivava trafelato. Saltà sulla Giulietta e partì
[…] – ma mi faccia il piacere. Con quel nome lì [Santamaria], sarà anche lui un napoli come tutti gli altri, che non sa neanche l’italiano.
In questa sapida ricostruzione d’ambiente si muovono e agiscono personaggi dal carattere indimenticabile che la versione cinematografica, altrettanto ben riuscita del romanzo, per la regia di Luigi Comencini, può aiutare a stigmatizzare efficacemente come sapranno i giallisti che sono anche patiti cinèfili. Ed ecco dunque Marcello Mastroianni nel ruolo del commissario Santamaria, Jacqueline Bisset in quello di Anna Carla Dosio. Jean-Louis Trintignant è Massimo Campi, Aldo Reggiani, Lello Riviera e, per concludere, Lina Volonghi nelle vesti dell’indimenticabile Ines Tabusso.
La donna della domenica in definitiva detiene a buon diritto il titolo di pietra miliare nella storia della giallistica italiana del secolo scorso. Impossibile per chi ama questo genere non averlo in biblioteca.
“La prof.” Maria Lucia Martinez