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A ciascuno il suo

Sicilia, 1964.

In un torrido giorno d’estate, il farmacista Manno riceve una lettera anonima.

Questa lettera è la tua condanna a morte, per quello che hai fatto morirai.

È una lettera minatoria, subito liquidata dal postino – che ovviamente assiste all’apertura della busta – come uno scherzo di cattivo gusto.

Eppure al farmacista quelle parole fanno una certa impressione.

Si scervella per giorni, ma proprio non riesce a capire chi sia il mittente e di cosa lo accusi, finché la domenica successiva non va a caccia con il suo amico fidato, il dottor Roscio.

Entrambi vengono freddati; un’esecuzione in piena regola.

Questi i fatti che mettono in moto la storia.

A ciascuno il suo è un caposaldo della letteratura contemporanea e riassumerne la trama sarebbe riduttivo e di nessuna utilità; cercherò piuttosto di toccare alcuni tra i suoi temi principali, senza dilungarmi e annoiarvi.

Abbiamo un duplice omicidio, che inizialmente sembra avere come vittima designata il farmacista, mentre la morte di Roscio appare come un danno collaterale: Manno era un fimminaro e sua moglie, mischina, una brava donna ma un poco brutta. Facile che abbia fatto arrabbiare un fidanzato, un padre o, peggio, un marito, che poi ha lavato la vergogna delle corna con il sangue.

Ne consegue che A ciascuno il suo si presenta come un romanzo giallo in cui l’autore gioca con il lettore, che si impegna a rintracciare il colpevole. Un poliziesco classico.

E invece no, perché chi viene incaricato di indagare su questo delitto?

Roscio è imparentato con il potentissimo arciprete Rosello e da Palermo si mobilita l’intera cavalleria: polizia e carabinieri indagano di concerto, ma Sciascia si stanca presto di seguire le loro piste e si mette invece su quella del professor Laurana, un tranquillo – oggi diremmo anche un po’ “mammone” – insegnante di latino e italiano a cui si deve pure il titolo del romanzo.

“Unicuique suum” è infatti la frase scritta sul retro della lettera, che Laurana vede mentre il farmacista la mostra al maresciallo, ma non in caserma per sporgere denuncia, no: in farmacia, che la sera assume le sembianze di un circolo ricreativo per professionisti – io stessa li ricordo, suddivisi per categorie lavorative, nel mio paese di origine.

Questa scena, che occupa le pagine iniziali della narrazione, è programmatica e richiama altre scelte che via via si riveleranno decisive per lo svolgimento dei fatti e indicative del pensiero dell’autore: la mancata denuncia alle autorità competenti, il fatto che il maresciallo non consigli di recarsi in caserma ma lui stesso non solo sottovaluti la lettera ma sminuisca il suo ruolo istituzionale, per concludere con la constatazione che allo stesso Laurana non passi per la testa di informare gli inquirenti dei progressi fatti nel corso della sua personale indagine, sono una chiara denuncia dell’autore nei confronti della società a cui appartiene.

Pensiamo alla scena in cui una ragazza, che poi risulterà estranea ai fatti, viene picchiata dalla famiglia e lasciata dal fidanzato solo per essere stata chiamata a testimoniare: troppo grande l’onta di aver varcato la soglia della caserma, indipendentemente dal motivo e dalle sue effettive responsabilità.

C’è un altro dettaglio che ci porta verso le conclusioni che stiamo per trarre: dove si svolgono i fatti?

Il paese in cui avviene l’omicidio non è mai citato.

L’assenza dell’indicazione geografica è una scelta precisa: non serve conoscere il nome del paese, perché la situazione in Sicilia non cambia tra un paese l’altro; sappiamo però che alcuni episodi avvengono a Palermo, anzi qui si verificano i due punti di svolta principali nell’indagine del professor Laurana.

Perché? Perché Palermo, in quanto capoluogo, rappresenta il centro del potere politico, in cui spirituale e temporale si fondono, in cui destra e sinistra non esistono, dove l’ideologia non ha nessun valore, se non economico. Di più: in quest’ottica, secondo la mia interpretazione, va considerato il viaggio a Roma del dottor Roscio, secondo un ideale asse geografico “paesino anonimo/Palermo/Roma”.

A ciascuno il suo si inserisce, cronologicamente e concettualmente, tra Il giorno della civetta (1961) e Il contesto (1971): il delitto di mafia e l’indagine sono l’espediente che Sciascia, per sua stessa ammissione, utilizza per descrivere la sfiducia nella classe dirigente e l’amarezza, crescente, nei confronti di istituzioni che si avvertono lontane o, peggio, corrotte e inaffidabili.

Ecco che il giallo diventa uno strumento “disonesto”, come Sciascia stesso lo definì, a cui gli autori ricorrono per tenere alta l’attenzione del lettore mentre trattano dei temi sociali che stanno loro a cuore.

In definitiva, abbiamo a che fare con un delitto di mafia?

Sì, nella misura in cui la cultura mafiosa permea la società, a partire dal nucleo rappresentato dalla famiglia – qui ci sarebbe da aprire una parentesi sui concetti verghiani di famiglia e proprietà – per diffondersi alla cerchia di conoscenti, al paese in cui si vive, alle istituzioni, da quelle locali alle nazionali.

L’epilogo si staglia come una legge incisa nella pietra, semplice e agghiacciante: “Laurana era un cretino.”

Claudia Cocuzza

Sono una farmacista e una scrittrice. La domanda è: con due figlie, un marito, un cane e un lavoro così impegnativo, come fai anche a leggere, studiare e scrivere? Facile: non saprei vivere senza tutto questo.