Yonas e Meheret sono due profughi cristiani che insieme alla figlia Semira, scappano dalla città di Asmara, in Eritrea. Insieme ad altri esuli disperati, i due dovranno compiere un interminabile e massacrante viaggio nel deserto africano, per ritrovare quella libertà e quella vita normale che sembrano ormai perdute per sempre.
Semira si risveglia nella stanza di un ospedale. È questa la nitida sequenza di un flashforward a catturare il lettore e a rispedirlo indietro, all’inizio di una storia che racconta, senza alcuna concessione alla retorica, un dramma tanto attuale quanto assurdo. Fino alla partenza di Yonas, Meheret e Semira dalla loro casa, verso un destino colmo di incognite.
È difficile parlare dei viaggi infernali dei migranti. Lo si può fare in due modi: col distacco del cronista che registra il nuovo bollettino delle vittime; oppure con lo spirito amoroso di chi vuole lasciare nella memoria, oltre al sangue versato, anche la luce di una speranza.
Lia Oleastro sceglie la seconda strada. Ed è una scelta congrua, consapevole. Direi vincente. Perché familiarizziamo subito con i personaggi di questo romanzo e ci disperiamo con loro mentre il sole gli cuoce la pelle, a bordo di uno scassato pick-up che rotola lungo il deserto sudanese e egiziano; ne condividiamo la tristezza, quando l’autrice ci mostra lo stupro della povera Yasmin; piangiamo con loro quando la bagnarola che dovrebbe trasportarli verso le coste italiane cola a picco in mare aperto durante una tempesta, portandosi con sé tante vite.
Lia non ci risparmia nulla: le sozzure, le anime abbiette, gli inganni dei passatori, il marciume e l’olezzo dei bordelli di Tripoli. Ma sa anche dipanare tra le pagine un filo di Provvidenza, intesa nel senso manzoniano. Quel destino buono a cui possiamo essere chiamati, pur in mezzo a tutte le brutte possibilità della storia.
Tutto ciò è ben orchestrato, mostrato in modo meticoloso, come le mercanzie di un suq. Con una cura grammaticale ricercata, rintracciabile in un’aggettivazione e in una scelta dei sostantivi precisa, dove ogni parola è finalizzata a far respirare la polvere del deserto, i fumi dei sobborghi di Bengasi, il fetore insopportabile di un corpo in decomposizione. Periodi che paiono possenti architravi, su cui Lia sospende ad altezze vertiginose la sua storia. Dove l’eco delle voci perdute non si spegne, in fondo al cuore di chi è sopravvissuto a naufragi e stermini di massa.
A ogni modo questo è un libro, dicevamo, che racconta anche di Provvidenza. Di una fede che non è un vuoto ripetersi di formule meccaniche, ma conforto e calore da trasmettere di padre in figlio. Totale affidamento di un bambino tra le dolci braccia della sua mamma. Trova spazio anche il conflitto padre-figlio, con il giovane Corrado, che non trova nel generoso medico di frontiera, Rosario Petralia, il padre che vorrebbe. E i dialoghi sono costruiti quasi in modo teatrale, nella loro chiarezza e profondità di sguardo, senza trascurare un profondo scavo psicologico. Non vi sono soste facili per chi legge: bisogna attrezzarsi per dormire all’addiaccio, confidando in una salvezza e in una redenzione che non è nelle mani degli uomini.
Ed è per questo che, dopo aver terminato l’epilogo, l’eco di quelle voci arriva a noi, interpellandoci con veemenza. Chiedendoci, anzi chiedendoti: e tu, da che parte vuoi stare?
La frase che io avrei voluto scrivere è: ”Ancora una volta Dio gli aveva dato prova della sua infinita misericordia mettendoli sulla sua strada.”
Christian Floris