La banda dei colpevoli

Questa volta  Sarah Savioli ha proprio voluto strafare e sul banco degli accusati invece di un solo colpevole ha collocato un’intera banda. Si tratta naturalmente di colpevoli morali, una famiglia che nasconde dietro un aspetto irreprensibile la paternità di azioni riprovevoli.

A partire dal capostipite che si era arricchito facendo l’usuraio, conosciamo così tutta una serie di personaggi ambigui, egoisti, immorali, legati con vincoli parentali a Ines Calici, una sessantaseienne vittima apparente di una banda di rapinatori che agisce nei quartieri più eleganti della città.

“Che bella famiglia, eh? Mia madre e mia sorella, se è per questo, è quello che dicono da anni, che io sono una pove­retta e che mia zia mi ha sempre fatto fare ciò che voleva”

Così si esprime una delle nipoti, Lucia, che ingaggia l’Agenzia Cantoni convinta che la zia in realtà non sia stata vittima accidentale della rapina, una farsa inscenata per  nascondere la volontà di uccidere, e che, a suo dire, il colpevole è da cercare in famiglia.

Per Cantoni e compagni inizia un’indagine complessa e i risultati sono dapprima deludenti. Continuare è però una questione d’onore e ad un certo punto la situazione si aggroviglia a tal punto che Anna scoraggiata pensa che i parenti di Ines sono tutti simpatici co­me cinghiali impallinati nel sedere tuttavia nel loro comportamento non ci sono elementi così solidi da giustificare un omicidio. Alla fine, però, come è ovvio, il colpevole salterà fuori.

Ad aiutarla ancora una volta sarà una nutrita schiera di animali che rappresentano uno dei punti forti della narrazione. Sarah Savioli li chiama in causa per metter su siparietti esilaranti destinati a smorzare la tensione o la malinconia di certi  momenti.

I miei pappa­gallini inseparabili – dice una signora- sono creature meravigliose, giocano in continuazione amoreggiando e cantandosi le canzoncine a vicenda. Pensi che vivono insieme tutta la vita e, se uno dei due dovesse morire, anche l’altro si lascerebbe andare.[…]

E invece quei due si odiano:

“Inutile che fai lo scontroso, lo sai benissimo che russi! E poi smettila di mangiare. Sei così grasso che quando ti ap­poggi sulle bacchette le pieghi,” rintuzza acidamente l’aga­pornis femmina.

“Ha parlato la vecchia scopetta per spolverare,” risponde il maschio e si mette a beccare con ancora più foga i semi.
“Brutto maleducato cafone, maledetto il giorno che ti hanno infilato nella mia gabbietta. Avrei preferito starci con un criceto schizofrenico!”

Sa coglierne gli aspetti più caratterizzanti, li umanizza accostandoli a prototipi ben precisi del genere umano (spero che questa non sia un’offesa per loro). Li classifica a livello sociale,  descrivendone il modo di agire e di parlare.

In questo giallo uno dei momenti più brillanti è affidato ad esempio alla descrizione di due gruppi di ratti,  il primo rappresentato dalla banda guidata da un certo Tu-top

“Uè, bella, sei tu la tipa del biglietto?” chiede il topo dal pelo grigio più scuro e annuisco. “Io sono J-rat e lui è il mio bro K-tac,” e cominciano a fare una specie di ballo rituale complicatissimo che dev’essere tipico della loro banda.
“Piacere di conoscervi, avete qualcosa da dirmi?” cer­co di accorciare i tempi perché i due si sono fatti prende­re dall’entusiasmo e ora fanno tutto uno schiaffeggiamento code-pance.

L’altro ad un ratto esponente raffinatissimo del centro cittadino nonché socio della FUASPPP, Fondazione Unica Aiuto e Supporto per Piccole Pantegane Povere.

“A cosa devo il piacere della sua visita?” domando.
“Siamo stati contattati dai nostri fratelli della rete fo­gnaria periferica e della zona industriale che ci hanno detto che lei, signora, aveva bisogno del nostro aiuto,” risponde impettito.
“Perché voi non siete topi della rete fognaria, no?”
“Ma certo,” dice. “Però della rete fognaria del centro cit­tadino.”
“Ah, be’… mi scusi.”
“Nessun problema, mia cara.

Il vero mattatore della situazione è però un geco mitomane

Non finisco di parlare che il geco sfreccia da dietro un armadio e si piazza sul muro bianco, dritto di fronte a me, palesemente in posa e con un fastidioso tic all’occhietto destro.

“Dimmi! Sono qui! Le foto, fammi le foto, anche con il flash. E il nome, scrivilo bene, mi chiamo Giasoneh, con la h alla fine. Il nome vero è Giasone, quello con l’h è quello d’ar­te per fan[…]Cosa vuoi sapere? Però aspetta…” e si gira ruotando di 180 gradi sul muro. “Questo è il mio profilo migliore.”[…]

Giasoneh (con l’acca finale) non esita ad attribuirsi la responsabilità del…cruento assassinio di Ines  e manda più volte in tilt la povera Anna dibattuta tra l’obbligo morale di prendersi cura del mattoide e la voglia irrefrenabile di mandarlo al diavolo

[…] quindi la uccisi con il pugnale, in sala.”
No, Giasoneh…”
“Con il veleno nello studio.”
“Piantala,” e mi alzo.
“Con il candelabro nella veranda.”
“Non c’è nemmeno una veranda qui,”[…]

   “Ferma, lo ammetto, fu un gioco erotico finito male…”

Altro punto di forza dei gialli della Savioli è dato dalla sua capacità di esternare fragilità, problematiche sociali e familiari della nostra contemporaneità così acutamente percepite da far sì che  il lettore  finisca puntualmente per  identificarvisi.  Perciò quando Anna ad esempio afferma che il cammino da fare quotidianamen­te è duro, con tutto che cambia, noi compresi, e che l’unico modo per continuare a farlo insieme è, seppure nelle difficol­tà, darsi una dignità tra pari, liberi, indipendenti e responsa­bili di ogni propria scelta.

sappiamo che lei sta parlando del suo rapporto con il marito ma ci rendiamo conto  che  in poche ore oltre a sciogliere i molti nodi della sua vita ci ha dato una chiave per tentare di risolvere anche qualcuno dei nostri. E viene quasi spontaneo ringraziarla per averci procurato momenti di divertimento ma anche di proficua riflessione.

Il messaggio più bello in questo suo giallo è a mio avviso quello che lei affida al finale dove, riferendosi a due dei suoi personaggi, rivolge un pensiero propositivo e di fiducia per il loro destino futuro ma anche per quello di noi umani impegnati in questa complessa e straordinaria avventura che è la vita:

Perché se è vero che le bestie ferite imparano solo a mordere, io non smetterò mai di credere che possano in­contrare qualcuno che sappia insegnare loro anche qualco­sa di diverso.

“La prof.” M. Lucia Martinez