Non conoscevo Raffaello Di Mauro fino a quando, il mese scorso, non mi è stato chiesto di moderarlo nel corso di una rassegna letteraria. Mai incontro libro-lettrice fu più folgorante: non smetterò mai di ringraziare chi lo ha messo sulla mia strada, come persona e come autore.
L’affare del Danso e altri cunti a prima vista – ovvero aprendo il libro e sfogliando – può sembrare una raccolta di racconti, e anche definirlo in questo modo non è del tutto sbagliato, perché ogni capitolo è una piccola storia che potrebbe essere letta anche da sola, tuttavia è riduttivo: si tratta di un romanzo corale che abbraccia per gran parte della narrazione un arco temporale ristretto (1934-1937), se si esclude il breve cammeo iniziale che Di Mauro dedica al nonno, Ciccio Grasso, a cui assegna il ruolo di apripista dei viaggi transoceanici di tanti italiani – tantissimi meridionali – verso l’America.
Lavora latino Ciccio Grasso, perché ha sei fratelli e vive sulla terra che lo deve sfamare, non può fagliare: ogni colpo deve andare a segno.
A sedici anni è mastro di zappone, virtuoso dell’innesto – ‘nzita con mano ferma: un colpo di mozzetta apre la corteccia bruna del tralcio, pizzica i vasi, affila le talee, serra forte il caucciù per sanare la ferita, un’avemaria e passa avanti.
Siamo a Piedimonte Etneo, nel 1906, e Ciccio lavora la terra dalla mattina alla sera; a lasciare la Sicilia per l’America non ci pensa proprio: è Ignazio, il fratello maggiore, quello che ha chiesto di essere liberato dalla prigionia della zappa e di provare a fare fortuna oltre oceano, ma si rompe un braccio tre giorni prima della partenza.
A questo punto don Saro [il padre, n.d.r.] si tira il paro e lo sparo, prende una decisione che è sentenza senza appello: per la Merica parte Ciccio, che è il più grande dopo Ignazio, tocca a lui, non è che possiamo perdere i soldi del biglietto!
Ora mi domando e dico: ma voi ce l’avete presente che significa preparare un bagaglio per un viaggio del genere in due giorni, a morte subitanea, con robe leggere, per le estati a venire e vestiti pesanti, di lana, capaci di proteggere dal gelo continentale della Merica?
[…] Il povero Ciccio è infracanzato, atterrito, confuso.
Tenete a mente queste parole, ci tornerò a breve.
Ciccio perciò è costretto a partire e ben presto si rende conto che l’America è molto peggio che una fregatura: viene messo a lavorare in condizioni disumane in una miniera, la stessa in cui suo fratello Ignazio, che riuscirà a raggiungerlo mesi dopo, troverà la morte.
L’America per lui – e per chi, come lui, è stato tradito dal sogno americano – è dolore senza scampo, la memoria inceppata su dettagli cruciali, la devozione dell’assenza che diviene cura quotidiana.
Ciccio torna a Piedimonte nel 1914 per raccontare tutto questo e, tra i paesani che ascoltano i suoi cunti, c’è Rocco Sapienza.
Rocco l’ha sentito bene quel che Ciccio gli ha detto: se proprio vuoi andare in America, stai lontano dalle miniere di carbone. Così Rocco parte e finisce nella stessa miniera dove è morto Ignazio e da cui Ciccio è scappato.
Ciccio Grasso passa il testimone a Rocco, che è il protagonista principale di una narrazione che, come dicevo, in realtà è corale.
Protagonista è la comunità, fatta di personaggi che incarnano ruoli precisi: il potestà Aurelio Scornavacca e suo padre, il notaio Settimio – emblema il primo dell’arroganza del potere e l’altro dell’attaccamento alla robba di verghiana memoria, come anche don Cosimo La Rocca –; gli scagnozzi del potestà, gli arditi Pietro Scimé e Alfredo Mignemi, i bravi manzoniani di questa storia; il maestro Giovanni Spartà e il suo amico Fernando Zurzolo, un po’ Don Camillo e Peppone, l’uno comunista e l’altro fascista; Carmelo Spada, martire sindacalista; Don Mariano, sensale di terreni, ma anche di matrimoni; la sonnambula, che legge il futuro come se lo vedesse nel passato; padre Egidio, mastro Giovannino e “don” Gregorio Sanza, che alla fine non ha commesso un crimine tanto diverso da quello ufficializzato da Mussolini il 18 novembre 1935.
È un’umanità variegata, fatta di personaggi da palcoscenico inseriti in una prosa che è a tratti sceneggiatura e sempre sostenuta da una musicalità inedita e irripetibile.
Era l’ombra che si allungava tra i tronchi di zappino e le felci, scivolando sul soffice tappeto di aghi senza fare rumore né lasciare traccia alcuna.
Era diavolone, sugghiu, marabecca, torcipanza e drizzuni di schina.
Era l’incubo che teneva aperti gli occhi dei carusi nel buio colmo di gemiti d’anime in pena, scricchiolii di tavarche, santiuni di carrettieri e fischi di tramontana.
Sentite i rumori del bosco?
E l’eco di Verga e di Pirandello, di Manzoni e di Tolstoj, la sentite? Di Mauro ha un grande dono – talento, bravura –: usa il narratore onnisciente come farebbe un cantastorie.
Verga, dicevo: pensiamo ai Malavoglia, a Rosso Malpelo, a Nedda, rappresentanti di un’umanità sconfitta. E i personaggi di Di Mauro? Sono dei perdenti?
No, non lo sono: tutti trovano il loro riscatto, e i prepotenti vengono puniti.
Raffaello Di Mauro racconta l’evoluzione – involuzione? di certo le tribolazioni – di un paesino siciliano su cui si abbatte il fascismo e lo fa con l’ironia e il disincanto proprio dei siciliani: anche la tragedia viene somministrata al lettore con mano gentile, introducendo il grottesco senza esagerare, così come vede la vita chi non si lascia sopraffare dagli eventi.
Concludo invitandovi a leggere a voce alta e a prestare attenzione ai suoni, e ora ritorno a questa frase: Il povero Ciccio è infracanzato, atterrito, confuso.
“Infracanzato”: l’ho cercato sul dizionario, convinta che fosse un termine che non conoscevo, invece è un neologismo, come tanti altri sparsi qua e là e perfettamente integrati nella prosa.
Ci sarà un motivo se L’affare del Danso di Raffaello Di Mauro (che è nato a New York)è stato segnalato al XXXV premio Italo Calvino “per la forza espressiva di una prosa impasto di dialetto, italiano e anglismi con cui viene messa in scena la Sicilia fascista, non senza incursioni in un’America filmica d’epoca”.
In verità io, di motivi, ne ho trovati più di uno.
Raffaello Di Mauro_Biografia
Raffaello Di Mauro (New York 16/12/1963), scrittore e architetto pubblica la prima silloge di componimenti poetici, “Per controversi frammenti”, nel 1996. Nel corso del 2013 dà alla stampa una seconda raccolta di testi, “Il tempo ribelle dell’infinito”, che risulta finalista al XXV concorso internazionale di poesia Giuseppe Gioacchino Belli e finalista al Premio Mario Luzi. Nel 2019 l’esordio nella prosa con un romanzo storico, “Per sentito dire”, Algra editore. Nel 2021 il racconto breve “America” viene premiato con menzione di merito alla prima edizione del premio 21racconti. Nel corso del 2022 il racconto “America” risulta tra i sette finalisti al premio letterario Città di Teramo. Ad aprile 2023 pubblica il romanzo L’Affare del Danso e altri cunti, con 21lettere editore. Quest’ultimo romanzo ha ricevuto una segnalazione di merito dal comitato di lettura del XXXV premio Italo Calvino. Nel 2024 il romanzo L’Affare del Danso e altri cunti si classifica al terzo posto del premio Internazionale Navarro. Attualmente finalista al premio nazionale Zingarelli 2024 e al Premio nazionale città di Salsomaggiore Terme. Autore di saggi sull’architettura rurale e sui centri storici minori, ha pubblicato diversi articoli su riviste scientifiche e d’arte.