Non è possibile parlare de Le vergini senza tener conto del primo giallo di Michaelides, La paziente silenziosa. I due libri sono legati tra loro per molte ragioni. La prima, quella che balza subito all’attenzione del lettore, è riconducibile al plot narrativo. Dirò più chiaramente che, Le vergini, che è il secondo romanzo in fatto di pubblicazione, racconta avvenimenti che precedono la vicenda de La paziente silenziosa, che è il primo. Quest’ultimo si svolge a Londra così come la fase iniziale e conclusiva del secondo che ha però la sua evoluzione narrativa in un college di Cambridge. I protagonisti dei due gialli si conoscono per tutta una serie di circostanze legate ad una struttura psichiatrica di sicurezza, il Grove. Qui lavora Theo Faber, giovane psicologo criminale, protagonista de La paziente silenziosa per avere accettato il suggerimento di Mariana, una terapeuta di gruppo, protagonista de Le vergini. Ma questo il lettore lo scoprirà solo alla pag 366 de Le vergini:
Era stata affidata […] al Grove, a Londra nord, la stessa presso la quale Mariana aveva consigliato a Theo di fare domanda. Saltò fuori che Theo aveva seguito il suo suggerimento e ora lavorava al Grove
Sulla trama in sé non dirò nient’altro per non rischiare di togliere a chi vuole leggerli l’effetto sorpresa che per entrambi arriva sul finale causando reazioni emotive davvero forti. Per quanto mi riguarda persino di ribellione e di iniziale disorientamento per il modo in cui l’autore gestisce le cose.
Passerò invece a trattare di altri elementi comuni, partendo dal background culturale dei romanzi che è di natura decisamente psicanalitica, anzi, addirittura freudiana. L’autore infatti in entrambi assegna a qualcuno dei suoi personaggi il retroterra classico della famiglia costituita da un padre dispotico e violento, una madre spesso remissiva, talora egoista, un figlio in continuo conflitto emotivo col genitore. Niente di nuovo sotto il sole. Da Svevo a Pirandello a Tozzi, tanto per citare esempi nostrani, il conflitto edipico ha coinvolto pagine e pagine di narrativa ma si ha l’impressione che in Michaelides assuma l’aspetto di un deja vu un po’stucchevole e artificioso.
Altro elemento riconducibile a questo contesto è l’uso del diario a cui un personaggio affida i propri pensieri quasi a scopo terapeutico. Ne La paziente silenziosa a farlo è Alicia Berenson, la protagonista femminile. Le vergini, invece, offrono la lettura di pagine sparse qua e là nel corso della narrazione e tutte in forma anonima. Anche questa tecnica non ha niente di originale perché più volte adoperata in letteratura. Citerò qui, tanto per far un esempio, La coscienza di Zeno di Svevo, o l’impronta diaristica di molti libri di Virginia Woolf o di Proust o ancora di Kafka. Michaelides usa però l’accorgimento della narrazione autobiografica con uno scopo diverso, per cui le pagine diaristiche oltre ad essere illuminanti ai fini della costruzione della personalità di chi le scrive, assumono una funzione più intrinseca alla natura del testo che, non dimentichiamolo, è pur sempre un giallo.
Per quanto riguarda invece semplici elementi caratterizzanti, colpisce in entrambi la presenza di un personaggio che spia da lontano ciò che avviene all’interno o nelle vicinanze di una casa. Questo aspetto che assume un’importanza risolutiva ne La paziente silenziosa, ritorna anche ne Le vergini:
Il mattino dopo, mentre usciva di casa, a Mariana parve di avere visto Henry. Stazionava sul lato opposto della strada, dietro ad un albero.
Lo scopo è chiaro, Michaelides vuole suggestionare il lettore e sa bene come farlo. Non dimentichiamo il suo Master in sceneggiatura presso l’American Film Institute di Los Angeles e la successiva esperienza da sceneggiatore in film di successo.
Ed ecco un esempio ne Le vergini. La scena, è proprio il caso di usare questo termine, si svolge nell’alloggio universitario del tenebroso professor Fosca che ha invitato a cena la protagonista, Mariana:
Mariana guardò il piatto che aveva davanti. Le fette sottilissime di agnello erano così al sangue e crude da far colare e diffondere sul piatto di porcellana bianca una pozza rossa scintillante, di sangue.[…]
Si sentiva gli occhi di Fosca addosso. Il suo sguardo gelido[…]
- Non hai provato l’agnello. Non ti va?
Mariana annuì. Tagliò un pezzo di carne e se ne fece scivolare una fettina in bocca. Aveva un sapore umido, metallico, di sangue.[…]
Fosca sorrise. – Bene.
Mariana prese il bicchiere, sciacquò via il sapore del sangue con ciò che le restava dello champagne.
Potremmo aggiungere a queste, altre osservazioni ma il plot narrativo di Michaelides ha una caratteristica molto peculiare: per poterne discutere si corre sempre il rischio, come ho già detto, di spoilerare e questo sarebbe veramente scorretto da parte di chi recensisce. Vorrei perciò limitarmi a concludere con quella che definirei la nota genetica dell’autore, vale a dire la sua “grecità”.
Michaelides ha studiato letteratura inglese a Cambridge e Cinema all’American Film Institute di Los Angeles. Si chiama Alex, ha frequentato Uma Thurman a New York ma è nato a Cipro ed è essenzialmente un greco puro sangue. Ora, un greco che non può prescindere dalla sua matrice culturale di origine ma scrive gialli, cioè, storie tragiche, in che altro può trovare ispirazione se non nella tragedia classica greca?
Ce lo dice lui stesso e più volte per bocca del Professor Fosca ne Le vergini:
–Ecco il senso di quelle vecchie tragedie greche. Cosa significa essere umani. Cosa significa essere vivi. Se quando le leggete, la cosa vi sfugge, se non vedete altro che quella parola morta, allora vi sfugge tutto[…] Se non siete consapevoli […] del mistero glorioso della vita e della morte[…] forse non siete nemmeno vivi.
[…]
-Euripide, come avrai capito, è il mio prediletto. Lo considero quasi un vecchio amico.
-Davvero?
– Oh, sì. è l’unico tragediografo a dire la verità.
– La verità su cosa?
– Su tutto. La vita. La morte. L’incredibile crudeltà dell’uomo. La racconta così com’è.
Michaelides di tragedie perciò ne adopera ben quattro in due libri:
Una ne La paziente silenziosa, tre in Le vergini.
L’enigma del primo dei suoi gialli ruota intorno alla tragedia Alcesti. Qui lo scrittore reinterpreta le due chiavi di lettura fondamentali per la comprensione del personaggio della moglie di Admeto.
Alcesti nella tragedia euripidea dopo il suo ritorno dagli inferi si rifiuta di parlare così come Alicia, a tal punto che il marito, Admeto, stupito si chiede:
Admeto: Perché questa donna se ne sta lì, muta?
A che si deve questa sua nuova condizione? Al trauma subito nell’affrontare i mostri dell’oltretomba o, cosa per lei ancora più dolorosa, nell’avere affrontato la morte al posto di uno sposo che si rivela meschino ed egoista accettando il suo sacrificio di morire in vece sua?
Voglio dare un indizio: È su questi due dilemmi che bisogna riflettere per comprendere anche le dinamiche del giallo del nostro autore.
Per quanto riguarda invece le tragedie presenti nel secondo dei libri di Michaelides, Eraclidi, Ifigenia in Aulide, Elettra, dirò solo che lo scrittore vi fa ricorso per alludere alla morte violenta di una giovane donna, motivo di fondo di tutti e tre i testi euripidei. Non aggiungo altro per non correre, come già detto, il rischio di spoilerare e lascio al lettore il piacere di leggere entrambi i gialli per comprendere più chiaramente il loro autore e, se si vuole, per verificare quanto sin qui osservato.
Maria Lucia Martinez