“Un solo atto di gentilezza mette le radici in tutte le direzioni, e le radici nascono e fanno nuovi alberi”.
“Chi ha detto questa stupidaggine?”
Sua sorella alza gli occhi dalla rivista.
“Amelia Earhart, un’aviatrice statunitense. L’avevi mai sentita?”
“È solo una bella frase. Ma la vita è diversa, è dura e fa schifo”.
“Non dire così”.
“Posso dire altro?”
“Solo perché hai raggiunto l’apice nel tuo lavoro e poi lo hai perduto? O perché la donna che stavi per sposare ti ha lasciato? E lo ha fatto perché tu, perdendo quel grosso cliente sei andato in debito di migliaia di euro?”
“Senti, sei ironica? Ti ci metti anche tu?”
“Dicevo, sono particolari”.
“Certo, è facile per te. Hai una famiglia, vivi a un metro da casa dei nostri, hai un’attività avviata e sei anche bella. Guardami. Non ho più niente, se non questo capannone, che ho affittato in questo posto che non so nemmeno come si chiami”.
“Dosson”.
“…sì vabbè, dicevo, in mezzo al nulla, circondato da contadini che zappano e che poi vanno a bere al bar. Ti ricordi chi ero? E i luoghi che frequentavo?”
Sua sorella annuisce.
“E c’è altro da dire?”
Lei scuote la testa.
“Dai, lasciami lavorare adesso, che questo posto pensavo fosse messo meglio. E grazie per il sacco a pelo e per la piastra portatile”.
“Ma sei sicuro di non voler venire un po’ a casa?”
“No davvero, voglio stare da solo e basta”.
Sua sorella lo abbraccia, infila la rivista in borsa, si guarda un po’ attorno e poi, con gli occhi lucidi, dice: “Dacci dentro”.
Matteo la segue andare via, mentre entra in auto e parte sulla strada deserta, con un gesto della mano per salutarlo, che intravede dai finestrini un po’ appannati.
È appena finita l’estate, è solo settembre ma già l’aria fredda dei campi colora il cielo di tinte dense, come se l’autunno volesse farsi largo nell’atmosfera, portando con sé un misto di tristezza e pace nel cuore.
Rientra nel capannone, illuminato da luci di cantiere. Perché lo ha preso? È la cosa più distante dalla vita che aveva fino a poche settimane fa, fino a prima dell’estate, quando il fallimento del cliente, e le conseguenti ricevute bancarie andate a vuoto, lo hanno mandato in game over.
Ma forse, a guardare bene le sfumature dei lampioni e il colore dell’orizzonte, non è così differente dal posto in cui è cresciuto.
Però non è il momento di pensare a queste cose. C’è un pavimento da pulire pieno di calcinacci, lamiere, cicche di sigarette. Per cominciare.
E non ci sono scope né aspirapolveri.
Matteo scuote la testa. Indossa il giubbotto, chiude i battenti e si dirige alla fermata dell’autobus, portando con sé lo zaino che custodisce tutto quello che ha: il computer, l’hard disk, l’agenda, i vari caricabatterie.
Non sa nemmeno dove trovare un centro commerciale. Sul bus vede due posti liberi, fa cadere lo zaino in quello di fianco al suo e si lascia trasportare dal panorama fuori.
Campi. Tramonti infiniti. Capannoni illuminati.
Quando scorge in lontananza le insegne di uno di quei franchising dedicati alla pulizia della casa, si alza di scatto e prenota la fermata. Dopo pochi metri l’autobus inchioda. Matteo scende, sollevato dall’accoglienza delle vetrine lucide e illuminate.
Ma è solo un momento di serenità prima di rendersi conto che il suo zaino, quello che custodisce tutte le sue cose, è rimasto sul mezzo.
“NOOOOOOOOO!” fa, con tutta la disperazione che sente dentro, sbraitando verso il bus che, lento e dondolante, si allontana sulla statale.
Urla, grida, lo insegue. Ma ormai è tardi.
E adesso?
China il capo e non ha il coraggio di rialzarlo.
Chi gliel’ha fatto fare, di venire qui. Dove non conosce nessuno, dove ci sono solo campi. E umido.
E odore di concime trasportato dal vento.
Il fascio dei fari che accostano lo fa voltare verso la strada.
“Va tutto bene?” domanda un agente della municipale, nella sua uniforme ordinata e brillante.
“Lo zaino!” esclama Matteo “è rimasto sull’autobus! C’è dentro tutto quello che ho!”
La volante mette le quattro frecce, gli agenti scendono dal mezzo. Chiedono dati, indirizzo e contatti.
“Proviamo a vedere se possiamo fare qualcosa” dicono, prima di ripartire dentro quella che ormai è notte.
“Grazie” fa Matteo, a mezza voce, seguendo le luci di posizione della pattuglia.
Poi, solo, si mette a camminare in direzione del capannone.
È quasi ora di cena.
Sulla strada, a un certo punto, le luci di una pizzeria.
Non è una di quelle dove andava di solito in città, eleganti e forse esclusive.
È un locale accogliente, illuminato da luci al neon e semplice. Ma con un profumo inebriante di pasta, mozzarella e pomodoro.
La cameriera lo accoglie con un sorriso stupendo.
“Cosa le porto?”
“Vino. Rosso. Tanto. E una pizza”.
“Che tipo di pizza? Vuole controllare il menu?”
“Una pizza”.
Lei non si scompone.
“Va bene allora, una trevisana e un litro di rosso della casa”.
Radicchio. Non lo ha mai amato. È amaro. Proprio come la vita che sta vivendo.
Ma non ha voglia di cambiare idea: soltanto di stare qui, al caldo, riparato dalla furia dei venti.
Il primo sorso di vino gli riscalda un po’ il cuore.
Ed è in questo momento che nota una famiglia, un paio di tavoli oltre il suo.
E poi c’è lei.
Che non è bella. Ma è bella.
Ha una felpa col cappuccio, i capelli lunghi, lo sguardo triste ma semplice.
Lo colpisce.
È un istante, un flash.
Prima che arrivi la pizza. Prima che lo smartphone si spenga. Prima di pagare e tornare al capannone da solo, senza certezze, senza telefono, senza niente. Solo quest’aria fredda, l’amaro del radicchio in bocca, la sensazione di aver fatto una cazzata a venire qui.
E poi si mette a piovere.
Matteo si barrica nel capannone, con le lacrime sul viso. Stende il sacco a pelo, si sdraia, chiude gli occhi.
I lampi illuminano le vetrate. La pioggia sventaglia sul tetto. E qualcosa batte contro il portone.
Sbatte forte. È come se qualcuno bussasse.
Qualcuno sta bussando.
Quando apre, scopre il viso dell’agente della Municipale che tiene il suo zaino e, malgrado sia bagnato come un pulcino, sorride.
“Non è facile trovarla eh? Ha anche spento il telefono”.
“No, si è scaricato, il caricabatterie era nello…” lo indica “zaino”.
“Beh missione compiuta” sorride l’uomo.
“Grazie…” dice Matteo. E mentre lo fa i suoi occhi si bagnano, ma non di pioggia.
La volante scompare e il temporale non fa più paura.
Il telefono si riaccende, lo schermo del computer si illumina e sono già due sorrisi ricevuti. In pizzeria e qui. Il terzo è quello di Matteo, prima di addormentarsi.
Il giorno dopo è in treno. Direzione Mestre.
È ancora un po’ rimbambito da tutta questa nuova vita per cui timbra la chilometrica due volte, così che si trova con due biglietti di andata validi.
“E vabbè” pensa.
Il viaggio è breve ma, a un certo punto, si rende conto che davanti a lui c’è la stessa ragazza di ieri sera.
Quella della felpa. Quella bella ma non per tutti, solo per lui.
Quella che, quando il controllore arriva, sbianca. Perché ha perso il biglietto.
Con educazione, senza scene. Sobria, nella difficoltà.
“La scusi” dice Matteo, con non si sa che coraggio ma con il ricordo dell’agente nella pioggia di stanotte “la mia ragazza fa sempre questo scherzo. Ecco il biglietto” porgendo all’uomo il secondo titolo timbrato.
Sorrisi di circostanza, loro. Occhi spalancati, lei.
“Grazie, davvero” dice poi.
“Figurati, nessun problema”.
“Posso sdebitarmi?”
“No davvero” ripete lui, affascinato dai modi compunti della ragazza.
“Insisto” fa lei, porgendogli una busta alimentare di pellicola stampata contenente due cuori di radicchio rosso “so che non è molto, ma almeno è una cosa che abbiamo prodotto noi.
“Ah sì?”
“Sì, provalo! Speriamo che questo nuovo packaging ci porti un buon risultato, abbiamo avuto dei problemi coi nostri fornitori e le nostre finanze sono…” e conclude passando una mano radente il pavimento del vagone.
A chi lo dici, pensa Matteo.
“Grazie ancora per la gentilezza. Fammi sapere se ti piacciono. La mail indicata sul pack, arriva a me” fa poi, con un sorriso che profuma di avance, prima di scendere.
La ragazza, con il cappuccio della felpa e i capelli che volano nel vento, scompare sul marciapiede del binario. Matteo l’accompagna con gli occhi fino all’ultimo istante.
Le stesse sensazioni dei treni che prendevo per andare alle superiori, tra zaini, colori, pioggia fuori e primi sguardi innamorati.
Quando arriva a casa, anzi al capannone, è ormai il tramonto, con l’odore dei campi che riempie il cuore e quel profumo che ti dà una botta dentro.
Matteo scarta la busta e appoggia i due cuori di radicchio sul muretto, con dietro il cielo di questo posto. Per la prima volta gli viene da pensare che la vita sa essere amara a volte, ma ha sempre un gusto splendido. Proprio come il radicchio.
Che c’è tutto un inverno davanti; lo sente arrivare, rosso come i suoi soli radenti a meno dieci gradi.
E chissà se questi due cuori sono quelli di lui e lei. Non sa nemmeno come si chiama.
Ma è tutta vita.
Si volta verso il tramonto. Lo sguardo è innamorato.
C’è un sacco di lavoro da fare.
Michele Luigi D’Amore, secondo classificato nel Concorso Letterario Nazionale Rosso d’Inverno, categoria Adulti