“Un solo atto di gentilezza mette radici in tutte le direzioni e le radici nascono e fanno nuovi alberi”. Questa frase l’ho sentita pronunciare per la prima volta da mio nonno in una sera d’inverno, quando durante le vacanze di Natale tutta la famiglia si riuniva nella grande casa del paese.
Quelle serate erano per noi bambini dei momenti magici perché mentre la tramontana scendeva sibilando dalle montagne, noi sonnecchiavamo davanti al camino e in quel tepore ascoltavamo la voce profonda di zio Francesco, detto Sciabolò, che rievocava le storie di antenati, resi leggendari dal tempo e dalle imprese. Tra tanti spiccavano il prozio Pompilio che “Allamerica” aveva combattuto con gli indiani, zia Antilia che si era fidanzata con un ussaro boemo e il trisavolo Medoro che, assalito da un lupo mannaro, lo aveva preso a bastonate, cacciandolo poi a calci nel sedere. Questa era una delle mie storie preferite e ogni volta zio Sciabolò terminava il racconto tra le risate e gli applausi di tutti, premiandosi con un bicchierino della grappa di casa, detta l’acqua di vigna, prima di spedirci tutti a letto.
Una sera, però, intorno al camino bisticciai con mia sorella e mio cugino Emidio e per evitare di essere sopraffatto, impugnai il soffietto di ferro del focolare e minacciai di sistemare i miei due rivali come il trisavolo Medoro aveva sistemato il lupo mannaro. Nonno Giuseppe che era rientrato in quel momento, mi zittì con un rimprovero che estese anche a zio Sciabolò. La storia del trisavolo Medoro non gli piaceva perché incitava alla violenza e alla derisione, lui voleva, invece, che i suoi nipoti ascoltassero storie di pace e di gentilezza.
Nonno Giuseppe citò allora quella frase sulla gentilezza, ricordando che era della famosa aviatrice americana Amelia Earhart che considerava una “stimata collega”, perché anche lui era stato un aviatore, imbarcato come motorista su un “Gobbo Maledetto” (il famoso bombardiere SIAI Marchetti S.M.79 Sparviero) durante la seconda guerra mondiale. Paradossalmente, proprio quella terribile esperienza lo aveva convinto del grande potere di un atto di gentilezza e quel soffietto di ferro con cui io avevo minacciato mia sorella e mio cugino, poteva testimoniarlo. Tutti ci facemmo attenti e curiosi.
Era mai possibile che quel soffietto avesse una storia? L’aveva ed era una storia importante, affermò nonno Giuseppe, perché quel soffietto una volta era la canna di un fucile e dentro c’era la pallottola che avrebbe dovuto ucciderlo… Subito la mamma e le zie, lasciarono le chiacchiere accanto all’acquaio e vennero a sedersi accanto al camino, pronte come tutti noi ad ascoltare. Nonno Giuseppe, allora, sedette accanto al fuoco, bevve un sorso di acqua di vigna che zio Sciabolò gli aveva servito, sfilò dal taschino un toscano, lo palpò vicino all’orecchio per ascoltarne il grado di maturità con il crocchio (crepitio), prese con le molle un piccolo tizzone dal camino, accese il sigaro e dopo la prima boccata iniziò a raccontare…
Mentre infuriava la seconda guerra mondiale, nel giugno del 1943, il bombardiere di nonno Giuseppe era stato colpito durante una missione sulla Jugoslavia e lui insieme al resto dell’equipaggio si era lanciato con il paracadute. Atterrato in territorio nemico, Giuseppe aveva perso il contatto con i compagni e per sfuggire ai rastrellamenti si era nascosto nei boschi. Era estate, faceva molto caldo e Giuseppe assetato, affamato e impaurito aveva vagato per tutta la notte e per tutto il giorno seguente tra gli alberi di un’oscura, interminabile foresta, trasalendo ad ogni minimo rumore finché, consumata l’ultima razione di sopravvivenza, si era addormentato sfinito ai piedi di un grande faggio. Al suo risveglio, lo scenario da incubo dei giorni precedenti sembrava svanito: il bosco nella luce rosata dell’alba appariva come sotto un incanto che annullava la paura, il pericolo, perfino la morte… Oltre gli alberi un torrente formava tra le rocce una specie di laghetto e
le sue acque limpide e fresche erano una tentazione irresistibile… Come trasognato, Giuseppe si spogliò e scivolò nell’acqua, abbandonandosi al suo abbraccio.
Questa sensazione di gioia durò meno di un minuto, poi dagli alberi uscì un partigiano jugoslavo che scorgendo sulla riva la divisa e le armi di un nemico, imbracciò il fucile, ispezionò il laghetto e scoprì l’italiano nudo e indifeso tra le rocce. Giuseppe vide il foro nero della canna del fucile fissarlo come un occhio minaccioso, mentre il sinistro rumore del colpo caricato lo avvertiva che un proiettile era pronto ad ucciderlo…
In quell’istante fatale Giuseppe alzò gli occhi e guardò il suo aggressore. Era un giovane della sua età, biondo e magro che nonostante l’espressione decisa, il fucile puntato, il pugnale al fianco e le bombe a mano nella cintura… tremava. Tremava per la tensione, per l’emozione, per la paura e Giuseppe capì che era una recluta come lui. Anche lui, infatti, in una simile situazione sarebbe stato teso e impaurito. Anche lui avrebbe tremato all’idea di uccidere qualcuno. Giuseppe ebbe un istinto di solidarietà per il giovane partigiano e incredibilmente gli sorrise. Un assurdo ma umano, sincero sorriso cameratesco tra due giovani che qualcuno aveva dichiarato nemici, ma che senza quella guerra non lo sarebbero mai stati.
Il sorriso del giovane italiano nudo e indifeso, risalì per la nera canna del fucile, superò la pallottola già pronta, attraversò la grigia divisa e arrivò dritto al cuore dello jugoslavo che abbasso l’arma e… sorrise anche lui. Un minuto dopo il temibile nemico sguazzava nell’acqua, mentre Giuseppe si rivestiva, facendo la guardia. Ma ormai il silenzio ovattato del bosco era percorso da improvvise scariche di fucileria. Lo jugoslavo uscì dall’acqua e si rivestì in fretta. “Giuseppe”. “Milovan”.
Appena il tempo di pronunciare i propri nomi, di stringersi la mano e di scambiarsi le armi, come segno d’amicizia, poi ognuno per la propria strada: lo jugoslavo a combattere nei boschi, l’italiano a marce forzate a raggiungere il confine per salvarsi…
Nonno Giuseppe concluse il racconto, bevve un altro sorso dell’acqua di vigna di zio Sciabolò, poi prese dalla tasca del panciotto il suo temperino rosso e con quello raschiò la fuliggine dalla superfice del soffietto di ferro, mostrandoci intorno alla base un marchio semicancellato: Steyr-Mannlicher M. 1895. Era la canna del fucile di Milovan che nonno aveva tenuto per ricordo: un simbolo di morte che la gentilezza aveva trasformato in un simbolo di pace, di famiglia e di serena comunità.
Quella notte sognai il lupo mannaro che assaliva Milovan, ma poi arrivava nonno Giuseppe che lo gettava in un laghetto e insieme ridevano divertiti, sguazzando con il trisavolo Medoro, con lo zio Pompilio e con l’ussaro boemo di zia Antilia: forse tutti ubriachi perché cantavano “Bella figlia dell’amore” come zio Sciabolò quando beveva troppa acqua di vigna…
Ho capito più tardi che già allora, anche se in modo infantile e confuso, avevo raccolto il messaggio di nonno Giuseppe, infatti la radice della gentilezza che aveva piantato nel mio cuore ha poi ramificato in ogni direzione, prima tra i parenti e gli amici, poi con la donna che ho amato e che amo e poi ancora con i figli e
spero un giorno con i nipoti…
Roberto Leoni, terzo classificato al Concorso Letterario Nazionale Rosso d’Inverno