La prima indagine del commissario Veneruso. Di Diego Lama – Mondadori 2021.
In quanto datata 28 luglio 1883, come si può arguire dallo stesso sottotitolo del giallo, questa per ordine di tempo è la prima delle indagini del commissario Veneruso, personaggio che i numerosi lettori di Diego Lama hanno imparato a conoscere e apprezzare per le contraddizioni insite nel suo essere un uomo fisicamente privo di attrattive:
Il commissario Veneruso non era più un ragazzino, non era più tento magro, non era neanche tanto alto e e neanche tanto tonico. Non era tanto niente, a dire la verità,
ma dotato di sensibilità, in quanto in possesso di
un cuore grosso e grasso, e si commuoveva facilmente anche se non piangeva mai. Mai. In segreto – ma in segreto segreto – Veneruso voleva bene a tutti, anche agli assassini, perché gli uomini lui li giudicava non per ciò che avevano fatto, ma per ciò che avevano subito.
Il commissario, dicevamo, in questa sua prima indagine si è appena ripreso da una malattia durata sette giorni, che le difficoltà del vivere quotidiano e della sua attività lo aspettano già pronte a metterlo alla prova: un paio di scarpe nuove di vitello che Veneruso si ostina a calzare malgrado le atroci torture che gli procurano e tre delitti che risolverà in una sola giornata scandita in 20 ore come 20 sono i capitoli che compongono il romanzo.
Il primo di questi atti delittuosi coinvolge il mondo dell’aristocrazia, riguarda infatti la morte della baronessa Salomè, benefattrice e, per dirla con le parole del conte Lomelet suo amico, praticante di quella felicità che si trova al di fuori dal matrimonio e delle convenzioni borghesi. Del secondo invece è vittima uno studioso milanese pugnalato nella Biblioteca Nazionale, avversato da un gruppo di intellettuali, i Difensori, intesi a tutelare dalle mire delle biblioteche del Nord la produzione letteraria di un giovane recanatese, un tizio un po’ felino, secondo Veneruso che si ostina a chiamarlo Leopardo, autore di una lirica intitolata l’Infinito (!!). Il terzo delitto, il più atroce, riguarda una giovane prostituta di tredici anni, Patrizia, accoltellata, (sarebbe più appropriato dire squartata) secondo i primi sospetti da Nando il Brutto, un giovane nato storto invaghito insanamente di lei.
Questi i delitti, per così dire palesi accanto ai quali il romanzo ne denunzia altri, più reconditi e non per questo meno gravi, anzi! Sono delitti che riguardano la morte di una civiltà, quella partenopea, e della sua lingua, il napoletano.
Penso che anche questo mondo sta svanendo, [afferma Guerrieri il direttore della Biblioteca Nazionale] come gli altri, e nessuno lo potrà mai fare tornare indietro […] un universo di conoscenze che verrà spazzato via, […] è già accaduto in passato per mille altri mondi, però avviene sempre lentamente e nessuno se ne rende conto, nessuno se lo ricorda più […] ma tra tutti i mondi ce n’è uno più importante degli altri…[…] La lingua.
Perché anche le lingue muoiono e nessuno fa nulla contro questo delitto. Il delitto del napoletano, dicevamo, una lingua a tutta gli effetti per importanza, complessità e tradizione culturale, uccisa per stupidità, per scelleratezza dai suoi stessi parlanti che l’hanno relegata alla classe debole in funzione della modernità.
Legato a quest’ ultimo delitto, quello delle parole ritenuto da Lama il più grave come si potrebbe dedurre dall’intenzione poi messa da parte, dell’autore di dare in un primo momento al giallo il titolo La morte delle parole.
Le parole non uccidono [afferma sempre Guerrieri] piuttosto vengono uccise. Ma prima che esse muoiano possono arrogarsi il torto o la ragione di stravolgere la realtà perché ci sono parole vere e parole false o fuorvianti. Lo sa bene Diego Lama che si serve di esse per costruire una vicenda apparentemente condotta sul filo del divertissement ma che alla fine presenta al lettore un conto molto più salato. Anche i piani di lettura risultano pensati con accuratezza, costruiti, come ci si può aspettare da un architetto qual è l’autore, su geometrie e simmetrie che si intersecano perfettamente tra loro. Lo stesso avviene anche a livello di fruizione, per cui il libro si presenta senz’altro godibile a un lettore poco scaltrito ma ancor di più per chi ne sa decodificare alcune chiavi di lettura, come avviene ad esempio per tutta la parte concernente il delitto della biblioteca.
La scrittura di Diego Lama è dura, realistica, essenziale ma è anche corredata da uno studio estremamente accurato a livello linguistico e storico-antropologico. Altro elemento caratterizzante è rappresentato dalla conoscenza intrinseca e assoluta di quella che definirei Napuletanità. Un’appartenenza cioè a quello straordinario modo di vedere la vita che solo chi vive ai piedi del Vesuvio può concepire e che ti fa ritrovare alla fine dell’ultima pagina come arrevotato perchè Tutti si muore soli, come avviene per certo teatro di Eduardo De Filippo che Lama ha voluto omaggiare con Sceneggiata di morte del 2016, ti ha fatto ridere ma ti ha fatto anche riflettere sulle verità contraddittorie della vita come fa la maschera di Pulcinella che talvolta chiagne e talaltra ride.
Maria Lucia Martinez