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Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, 1951

Guardando il volto di Adriano, vi sembrerà di ritrovare i tratti di vostro cugino di Reggio Calabria, un trentenne naturalmente dotato di un’espressione assorta e di buona salute. Le sue Memorie, invece, sono quelle di un vecchio ammalato, morente e lucidissimo:

“Ho sessanta anni: sono giunto a quell’età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata”.

L’impressione che questa epistola, destinata a Marco Aurelio, nipote di Adriano e suo erede al trono, sia stata dettata al momento di lasciare il mondo mi discende probabilmente dall’averla ascoltata dalla voce di Gianni Musy, su Radio3. Avrei voluto fosse quella di un mio avo, che andavo a trovare ogni sera perché alimentasse la mia immaginazione col racconto di una vita intera. E non una vita qualunque, bensì quella di Publius Aelius Traianus Hadrianus, nato nel 76 (quando questo numero significava 43 anni dopo la morte di Cristo e non l’anno della morte di Agatha Christie) e divenuto imperatore nel 117.

Questa vita mi si è disegnata nella mente più distintamente che se l’avessi vissuta io. Perché, mentre ero disteso a letto accerchiato dal silenzio, o su una poltrona ostaggio delle nuvole, o sotto un ombrellone a subire i pettegolezzi delle onde (questo sogno, tutti i giorni), m’è apparso chiaramente che pochi hanno il fardello di vivere vite significative, ma se quei pochi decidono lasciarne tracce d’inchiostro o di pietra, anche le nostre attingeranno a quei significati. E così possiamo anche noi sentire la polvere sotto i cavalli dell’esercito romano, l’odore acre del ferro delle sue lance e del sangue esposto all’azzurro del cielo, i profumi delle essenze che bruciavano nei templi, il calore dell’acqua termale che allungava le membra, la paura delle condanne a morte, il peso degli incarichi pubblici. E così la nostra immaginazione può arrivare dove non arriveranno mai le nostre dita, i nostri occhi, i nostri passaporti.

Se state ragionando sul leggere o meno questo libro, non fate l’errore di pensare a Roma, al suo impero, alle trame, alle congiure, agli assassinii, alle guerre, alle invasioni, alle conquiste. Non pensate solo alla storia con la “s” maiuscola. Qui, la storia è solo un mezzo per raccontare non una vita, ma la vita. Ora, a freddo, so che non si tratta della vita da imperatore, le cui connotazioni qui pur emergono, ma quelle di un uomo a cui il potere non ha dato deliri, né vertigini, né scuse. Gli ha conferito piuttosto il tempo, il luogo, le occasioni di riflettere, anzi, di fare quella cosa poco frequentata che è il pensare. E di riportare a noi quei pensieri. Traspare, infatti, un uomo semplice, che però governava qualcosa come una buona parte del mondo conosciuto, con la stessa freddezza e sapienza con cui noi andiamo a prendere la posta nella cassetta delle lettere. Egli aveva, semplicemente, un altro ruolo. Noi ci lamentiamo allo sportello del Monte dei Paschi di Siena come lui ordinava la distruzione di Gerusalemme – solo che lui potè sterminare alcune centinaia di migliaia di uomini, mentre noi non riusciamo neppure a superare il vetro con il fiato e finiamo col provare la nostra massima soddisfazione mandando una PEC alla direzione centrale.

Sterminare, sì. Non sembra cosa di cui andare fieri, ma quelli erano gli affari del tempo, le guerre essendo combattute per abitudine e non per indole. Per carattere, quell’imperatore diverso da tutti gli altri amava l’arte figurativa, la poesia e la filosofia, oltre che scrivere egli stesso in prosa e in poesia, in greco e in latino: “Ho letto più o meno tutto quel che è stato scritto dai nostri storici e dai nostri poeti, persino dai favolisti. Benché questi ultimi siano considerati frivoli, sono loro debitore di un numero di informazioni forse maggiore di quante ne abbia raccolte nelle esperienze, pur tanto varie, della mia stessa vita. La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare la voce umana pressapoco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m’hanno insegnato ad apprezzare i gesti gesti degli uomini. Viceversa, con l’andar del tempo, la vita m’ha chiarito i libri. Mi troverei molto male in un mondo senza libri, ma non è lì che si trova la realtà dato che non vi è per intero.” Questo equilibrio egli aveva, duemila anni fa.

E, quasi fosse un’opera d’arte, Adriano amava il suo Antinoo: la Yourcenar, dopo aver studiato la Storia Romana di Cassio Dione e la biografia nella Historia Augusta, riesce a trasformare i libri nella voce viva di un imperatore descrivendo il dolore che egli provò quando il suo giovane amante annegò nel Nilo e ciò che fece per conservare il di lui ricordo e il di lui corpo. Infinita tenerezza proverete nell’origliare il suo dolore, nello scoprire che chiunque abiti un gradino sotto Dio è debole ed esposto allo stesso modo alla finitezza delle cose.

Ignoravo tutto questo, o forse non lo ricordavo – il che è pressoché la stessa cosa – e ora vi ho attinto grazie a questo libro e mi sembra di avere la Storia fra le mani e, nella mente, l’anima di un imperatore, il suo eroismo, la sua inflessibilità, quella sua capacità di discernimento che oggi pare mancare a chiunque (me incluso). La sobrietà, la saggezza, l’equilibrio – ma potrei averli fraintesi o trasformati, a beneficio delle mie personali aspirazioni – mi giungono come le caratteristiche più distintive di questa figura. Che, quando chiudo gli occhi, mi appare sempre più distintamente come quella di un uomo solo, che guarda dall’alto il resto del mondo, nel silenzio e nel freddo di una notte dell’Asia Minore. E chiude egli stesso gli occhi, per pensare a ciò che è giusto per gli uomini, poiché sta per prendere una decisione che lascerà tracce su una città, su una regione, su un impero. Sul tempo.

Ma può essere che tutto questo lo immagini io, poiché mi è distante, mitico e necessario.

Venceslav Soroczynski
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