Un altro muro è stato abbattuto durante queste Olimpiadi di Tokyo 2020.
Non è uno di quei record che puoi misurare in centimetri o secondi. Il muro abbattuto è quello dello stigma sociale che si ha nei confronti della salute mentale.
È sui giornali e sui microfoni di ogni trasmissione televisiva.
La campionessa Olimpionica Simone Biles, 4 ori alle scorse Olimpiadi di Rio senza contare tutti gli ori mondiali vinti, ha deciso di ritirarsi dalle gare per prendersi cura della sua salute mentale.
Tensione, stress e disturbi pregressi come i twisties, un fenomeno per cui mentre si volteggia si perdono i punti di riferimento e si fa spazio il senso di vuoto intorno, non le stavano facendo vivere queste competizioni. Il ritiro è stato il minimo, vista la pericolosità del disturbo correlato alla disciplina che pratica. Oggi il ritiro da altre due gare, il volteggio e le parallele asimmetriche, confermano solo che se non si è al 100% a certi livelli agonistici, per la propria salute la cosa migliore è fare un passo indietro.
Prima di lei, pochi mesi fa, son arrivate le stesse dichiarazioni da parte di Naomi Osaka, tennista giapponese e tanto discussa, nella propria nazione, ultima tedofora di queste edizioni di Olimpiadi.
Tanto discussa perché lo stigma sociale sulla salute mentale è ancora alto in molte parti del mondo.
Le narrazioni tossiche continuano, ancora oggi in molti titoli giornalistici, a parlare di sconfitta, di mancate medaglie, accostando immagini di pianti a parole come debolezza e sconfitta.
Parliamoci chiaro. Questo ritiro non è una sconfitta. Anzi.
Facciamo una riflessione semplice per capire dove sta il problema.
È lecito ritirarsi dai Giochi per uno strappo o una lesione muscolare, magari scrivendoci su “Gran peccato, Olimpiadi sfumate“. Il ritiro per un disturbo mentale, che sia ansia, depressione, panico, twisties o qualsiasi altro nome possa avere, è una sconfitta, una debolezza. La si vede la differenza, no? Semplicisticamente parlando, uno strappo muscolare mentale non è considerato allo stesso modo.
La fallacia deriva un po’ dalla dicotomia che corpo e mente hanno sempre avuto nella narrazione scientifico filosofica, a partire da Cartesio in poi, l’altra sul pregiudizio che si ha nei confronti della salute mentale.
Come se la mente fosse completamente scollegata dal corpo: oramai sappiamo essere una visione molto superata che la salute mentale sia solo un problema “di testa”.
La consapevolezza e la salute del proprio corpo passa anche, e soprattutto, attraverso la propria salute mentale. Senza l’uno e senza l’altro non siamo completi. E non è una questione di forza di volontà o di “trasformazione delle fonti di stress in punti positivi per affrontare le gare“, come ha dichiarato Djokovich commentando, e sminuendo, il ritiro di Simone Biles.
Sminuendo si, perché la salute mentale non è una questione di forza di volontà, è una delle credenze che lega a doppio filo questo tipo di narrazioni tossiche e di pregiudizi che ancora si hanno nei confronti del tema. La famosa pacca sulla spalla correlata da “è un momento passerà”, o dal “dai che ce la fai”.
Forse per questo molto stigmatizzato: se non lo vedo non so come poterti aiutare e come risolvere il problema.
Molti commenti alla dichiarazione di Djokovich erano rivolti al genere. Lui è uomo, loro son donne, come se la salute mentale fosse solo un problema femminile. E non lo è.
Ricordiamo la depressione di Ilicic post lockdown dell’anno scorso e le dichiarazioni di Chiellini e Di Canio, sempre per rimanere nel mondo calcistico del lockdown e post lockdown in cui casi di ansia, depressione e disturbi erano aumentati del 50% tra i calciatori e gli atleti proprio per il brusco cambio di abitudini e di reclusione forzata.
La nostra Federica Pellegrini stessa ha passato dei periodi in cui la salute mentale era salita al primo posto nella cura della propria carriera e della propria salute.
Senza contare che a certi livelli sportivi la pressione e la carica che gli atleti hanno addosso per dover vincere e portare determinati risultati a volte è ben più grande dello spirito e della passione sportiva che dovrebbe ispirarli.
Ben venga quindi battere questo record, nel parlarne e nell’abbattere i muri di alcuni pregiudizi, far cadere quegli Dei dall’Olimpo che immaginiamo immortali e così distanti da farceli credere alieni alla vita quotidiana che colpisce tutti noi.
Avvicinarci a loro ci fa sentire tutto possibile, narrabile, ci fa prendere come esemplari le loro posizioni che ci avvicinano a queste discussioni che abbiamo paura di affrontare, purché le narrazioni che ne derivano siano corrette e non tossiche.
Una cosa è certa.
La salute mentale è una medaglia ancora da vincere, in ambito sportivo e sociale.
Ma in queste Olimpiadi abbiamo visto già che è possibile posizionare il podio in campo e permetterci di decretare alcuni vincitori. Perché arrivare qui, a parlarne, è già una vittoria.
Alessandra Collodel