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Viene prodotto nell’omonima valle ladina delle Dolomiti bellunesi con il latte conferito da otto allevatori che sfidano le difficoltà dell’alta montagna e custodiscono un territorio di grande bellezza.
Sono in otto e, nonostante le difficoltà, resistono, come già i loro nonni un secolo fa. «Non abbiamo alcuna intenzione di chiudere le stalle, non vogliamo abbandonare la montagna» sintetizza Egidio De Zaiacomo, 66 anni, una vita spesa a Livinallongo del Col di Lana, tra le Dolomiti bellunesi, Patrimonio Unesco. Suo figlio Erwin è uno degli otto allevatori che conferiscono il latte alla latteria cooperativa dove si produce il fodóm, un formaggio a pasta semicotta ottenuto con latte vaccino intero crudo, appena diventato Presidio Slow Food. Lui, Egidio, gli dà una mano in azienda ed è il referente dei produttori del Presidio.
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Che cosa rende così difficile lavorare su queste montagne?
Livinallongo del Col di Lana, milletrecento abitanti sparsi in diciassette frazioni, sorge ai piedi del massiccio del Sella: la valle di Fodóm inizia a 1300 metri e i suoi pascoli più alti superano i 2000 metri. Pendii ripidi, caratterizzati da un’eccezionale varietà di erbe foraggere che si rivelano un ottimo pascolo e assicurano un fieno altrettanto eccellente: la raccolta inizia a giugno sui prati che circondano i masi, prosegue in agosto sui prati in altura e si conclude sul finire dell’estate, con un secondo sfalcio dei prati intorno al maso. Mescolando i due tipi di erba, si ottiene un fieno eccellente, in grado di fornire un latte ricco di antiossidanti e vitamine.
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Fare agricoltura in montagna e allevare le bestie in altura, però, è tutt’altro che semplice. «Il primo elemento di difficoltà è rappresentato dalla pendenza dei prati – spiega De Zaiacomo – perché occorre dotarsi di macchinari speciali per la fienagione che assicurano stabilità e sicurezza nel lavoro, ma che costano il doppio di quelli usati a quote basse, dove i pendii sono più dolci». Per fare il fieno ci vuole più tempo: «In un giorno noi riusciamo a fare un ettaro di fieno, a due o trecento metri di altitudine si può arrivare anche a dieci». Il motivo? Per sfalciare in piano possono utilizzare macchine più grandi. E poi c’è da tener presente che chi lavora in alto deve anche occuparsi di portare più a valle, nelle stalle, il fieno: tempo e soldi che se ne vanno. Altra cosa: «Dobbiamo falciare superfici più ampie, perché i prati in alta montagna rendono di meno, dal punto di vista quantitativo» ricorda il referente.
La richiesta? Che la politica riconosca le differenze
Nonostante le difficoltà, per i produttori del Presidio resistere in alta montagna è importante. Da un punto di vista qualitativo, ad esempio, il latte non ha paragoni: «In un metro quadrato dei nostri prati stabili ci sono un centinaio di essenze arboree diverse, rispetto alle quindici di un prato a bassa quota. Noi ci difendiamo con la qualità organolettica e nutrizionale di questo latte – rivendica – ma sfalciare i prati e fare il fieno non è un vantaggio solo per noi: genera benefici per il turismo, perché un prato sfalciato e un territorio curati sono belli e rendono più gradevole il paesaggio. I prati permanenti curati e gestiti dagli allevatori locali, inoltre, contribuiscono a contrastare il dissesto idrogeologico e le slavine», un aspetto non trascurabile in un luogo come Livinallongo, in cui persino il nome, in ladino, richiama a una valle lunga con pendii ripidi, soggetti a slavine.
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«Noi vorremmo che le differenze siano riconosciute, cosa che oggi non accade – prosegue De Zaiacomo –. La Regione Veneto considera montano l’intero territorio provinciale di Belluno, indipendentemente dall’altitudine, e questo fa sì che le indennità compensative riconosciute a noi, che stiamo a quote alte, siano di poco superiori a quelle erogate a chi lavora in basso. Ma i costi in alta montagna sono molto più alti e le condizioni di lavoro più dure». Così, spiega, solo il 5% delle aziende che producono latte in provincia di Belluno lavora quotidianamente in queste condizioni e molti agricoltori, in inverno, devono avere un secondo lavoro: le risorse dell’allevamento, semplicemente, non sono sufficienti.
«Geneticamente abbiamo ereditato dai nonni l’attaccamento alla terra – conclude De Zaiacomo –. Non vogliamo andare via, vogliamo vivere qua e vogliamo che anche i nostri figli e nipoti possano farlo. Ma non è possibile che in inverno i contadini delle terre alte debbano cercarsi altri lavori per mettere insieme un reddito che consenta loro di vivere. Oggi sono costretti a lavorare negli impianti di risalita o a sgombrare la neve, ma avere due impieghi così diversi non consente di lavorare bene con gli animali: va difesa la dignità del contadino, perché se muoiono i contadini muore la montagna».
Il fodóm, più di un formaggio
La Latteria cooperativa di Livinallongo produce vari formaggi, ma il fodóm – fatto con latte crudo di vacche brune alpine e pezzate rosse – è la tipologia tradizionale che da sempre si produce in questa valle. Al latte, scaldato a 36,5 gradi, viene aggiunto il latte-innesto autoprodotto e il caglio di vitello. Dopo mezz’ora di riposo avviene la rottura della cagliata, in diverse fasi e a dimensioni via via sempre più fini. Quindi la cottura, la raccolta in un telo di lino e la pressatura, con tanto di applicazione della placca con la scritta Fodóm. Poi la salamoia e infine il via alla stagionatura, che può durare tre o quattro mesi. Le forme in commercio si presentano con diametro tra i 30 e i 35 cm, spessore di 7-8 cm e peso di circa 5 kg.
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Il Presidio Slow Food intende promuovere le produzioni casearie della valle, dando loro il giusto valore, sostenendo così allevatori e casari. L’obiettivo principale è avviare una produzione di fodóm fatto con il latte crudo estivo, ottenuto in alpeggio, da affiancare a quello che si ottiene nel resto dell’anno con i fieni dei prati stabili locali.