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Ispirazione

Edgar chiuse gli occhi e inspirò molto profondamente.

Sarebbe arrivata l’ispirazione prima o poi. Era nel bel mezzo del salone, tra il divano con i cuscini sparsi – e il telecomando introvabile – e il tavolo da pranzo ancora non sparecchiato. Aveva cercato il punto giusto, quello più geometrico nel salone – cercava di essere allo stesso tempo al centro della stanza e distante da ogni mobile allo stesso modo – si era fermato e aveva chiuso gli occhi.

Inspirò. Lo fece più volte. Rimase in questa condizione di cecità auto indotta per qualche minuto, speranzoso del suo arrivo. Nel mentre che buttava fuori l’aria e la riprendeva, come se stesse esaudendo un desiderio, si diceva: “arriva, arriva!”, e invece no, non arrivava. Si stufò e lasciò perdere, quel metodo non funzionava.

Si buttò sul divano. Chiuse il pc con aperta la pagina per scrivere.

Sbuffò, ma decise che non era il momento di arrendersi.

Di scatto si alzò e andò alla finestra. Era pomeriggio presto, ma Edgar cercava nei colori del cielo la scintilla. Vide un areo, sentì qualche uccello cantare e la vicina che stendeva i panni, che lo salutò. “Certo,” si disse, “se fosse stata l’alba o il crepuscolo avrei certamente scorto qualcosa.” Chiuse le finestra.

Iniziò a camminare in circolo, cercando di atteggiarsi come un saggio poeta, emulandone il mood.

Si sdraiò per terra guardando il soffitto. Gli faceva male la schiena – poteva essere un buon segno. Sentiva un dolore sul fondoschiena a destra; decise allora di appoggiare più peso possibile su quel punto. Dire che il dolore fosse quasi straziante non si può – sarebbe un’offesa ai dolori strazianti – ma per Edgar, convinto futuro scrittore imbellettato, era la pena di un inferno; dolore che cercava di aumentare per trovare il suo paradiso perduto. Si sa che per gli artisti è proprio dal dolore che nasce la bellezza; per Edgar solo bestemmie.

Si alzò faticosamente in piedi.

“È solo questione di prospettiva”, si disse. Prese la scala nello sgabuzzino facendosi male ad un dito del piede sinistro e la aprì in un angolo del salone. Salì i gradini non accorgendosi del soffitto sul quale sbatté la testa.

Guardò la stanza dal suo paradiso artificiale. Gli oggetti avevano una forma diversa, così come avrebbero dovuto averla i concetti, le idee. Era la giusta altezza per riuscire a catturare qualche farfalla che mai nessuno aveva mai riuscito ad acchiappare.

Qualcosa stava arrivando, una strana sensazione che non arrivava tanto dal di fuori, quanto dall’interno. Una scintilla che nasceva dentro Edgar, dallo stomaco, dalla parte più viscerale dell’uomo, r nata da quella visione dall’alto. Infatti scese gli scalini per recarsi in bagno a vomitare.

Prese un libro a caso dalla sua libreria, Il Cessomante, al quale implorava di dargli una soluzione. Iniziò a leggerlo, ma lo conosceva fin troppo bene. All’improvviso, l’idea: lo leggerò interamente dalla fine all’inizio, parola per parola. 

Iniziò: “‘!feci lo volta un già’: urlò ed ancora servizi suoi i offrire di rifiutò si Cessomante Il”; troppo poco originale… e se leggessi proprio le parole al contrario? Sì, questo sì: “!ifec ol atlov nu”; si stufò e rimise il libro sulla mensola.

Corse in corridoio davanti al quadro (finto) di Pollock. Cercava. Tra un cerchio e dei colori scoppiati, cercava qualcosa da azzannare. Seguiva la linea rossa, la seguì così da vicino che nel percorrerla si ritrovò a fissare il muro affianco al quadro. Pollock l’aveva buttato fuori.

Si diresse nel suo studio. Prese cartacce, penne e gomme da masticare. Preso da un impeto di latente disperazione mischiò insieme questi elementi per far uscire qualcosa che ispirasse qualcos’altro. Utilizzò anche del cibo.

Ecco quindi la visione di un obelisco antropomorfo frastagliato che però non aveva niente di umano. Quasi fosse una delle creature dei migliori horror, tanto vicina all’essere una forma umana quanto lontana, in quel limbo di vicinanza e distanza indefinibile. Qualche pezzo cadeva.

Edgar ci camminò intorno. Strizzava gli occhi, lo guardò da sopra a sotto e da sotto a sopra, lo guardò sotto-sopra – gli diede persino le spalle per vedere l’idea dell’oggetto – cercava un’anima dentro quel mucchio di robe messe a casaccio.

Suonare al campanello dell’infinito, ecco cosa Edgar stava cercando di fare alle 16:27 di giovedì 24 settembre nel suo studio.

Comunque quel “coso” crollò dopo un paio di minuti e nessuno rispose al campanello. 

Matteo Abozzi