L’uovo generazionale

Ho appena postato un commento sotto ad un video di una famosa modella americana e mi son appena resa conto della difficoltà nel far capire una tradizione diversa culturalmente da quella trasmessa nel video.

Il video era un reel di una scommessa fatta dalla conduttrice verso questa modella nel bere un uovo crudo. L’avete mai fatto? A prescindere dall’aprire l’uovo a metà, mescolarlo e berlo con una faccia orripilata, ovvero ciò che è successo nel video, mi son riaffiorati ricordi di infanzia, sapori, profumi.

Vi capita mai?

Passare accanto ad un negozio di caramelle e sentire il profumo di mandorle pralinate che vi rimanda a quella sera in fiera dove avete vinto un peluche per la prima volta tirando 3 cerchi sul collo dei cigni? Ecco una cosa simile.

Come ho visto il video son stata proiettata in una dimensione fantastica durante la mia infanzia, in quelle giornate piene di mamma, papà e nonna, di vita, esperienze e storia generazionale.

Alle mattine passate al mercato della frutta e verdura, tra i banconi dei formaggi, tra il “Dame na formagea fresca“* al “Na fetina fina de asiago e un toco de grana“** pronunciata da nonna con quell’accento da veneta con la dentiera che te sbrissa, scivola, sempre il dittongo nostrano.

E nel vedere il cesto di uova fresche sul bancone era sempre lo stesso illuminarsi il viso, che “ciò è xe fresche? Damene quatro, ansi no sssìe“***. Perché il sapore di uova fresche, veramente fresche, è tutt’altra cosa da quelle confezionate al supermercato, ed era impossibile lasciarsele sfuggire, per farne un dolce, per mangiarle alla coque con il pezzettino di pane inzuppato dentro.

Oppure quelle volte in campeggio, che col caldo si moriva già alle 10 del mattino e allora andavamo a trovar refrigerio dal contadino, perché pure il mare era un inferno, e nell’androne all’ombra della vecchia fattoria circondati dai cinguettii delle rondini e dei pulcini, trovavamo il cesto di uova “fresche appena sfornate”. E allora, “damene do par i fioi” che tanto poi un goccetto ce lo dividevamo tutti.

E il rituale era sempre lo stesso.

Lavato l’uovo lo si prendeva in mano delicatamente, crudo.
Si faceva un piccolo foro sopra con un ago cercando di fare un buchetto piccolo, e poi fare lo stesso piccolo foro sotto, tenendo ben chiuso con il dito il foro già fatto, sempre con la stessa cautela di quando si tocca una cosa tanto fragile quanto importante.

Importante era il rituale, questi riti e passaggi di conoscenze transgenerazionali che oggi raramente facciamo e vediamo. Era un rito fatto dai nonni, che allevavano le galline e quelle stesse uova o le vendevano o le mangiavano. Era un rito sempre perpetrato anche dai miei con le uova fresche di gallina di casa e poi trasmesso a noi piccoli sempre quando c’era l’occasione di assaporare quel gusto diverso, fresco e dal sapore antico, tramandato di generazione in generazione.
Un rito che sigillava la dinastia al passaggio di consegne da genitore a figlio.

Ed una volta fatti i forellini… si succhiava via, pian piano, l’uovo fresco da quel forellino inferiore. Un uovo che ha il sapore della vittoria, del far le cose tutti insieme, della condivisione, dei sapori semplici ma che hanno un gusto ancestrale.

Ed eccolo l’uovo vuoto, pronto per passare da rito a gioco,

Da vuoto si iniziava a riempire con i chicchi di riso, uno alla volta da quel buchetto.
Si passava poi a dipingerlo a mano, tanto per passare il tempo di quei pomeriggi troppo caldi, a romper altre uova con quella simil maracas a risuonare nell’aria a ritmo di un battito di ali di rondine.

Alessandra Collodel

*”Dammi una forma di formaggio fresco”

**”Una fettina fina di Asiago e un pezzo di grana”

***”Son fresche quelle uova? Dammene quattro anzi no, sei”