L’altro oltre lo schermo

Era una giornata normale, simile ad altre decine già vissute, passata tra un fare e l’altro, tra una pausa e l’altra. Una giornata normale in cui, nei momenti di noia, sfogliavo pigramente le vite di altri individui apparentemente distanti, ma che sarebbero potuti essere me.

Osservavo i loro profili, le loro “vetrine” e mi chiedevo il senso. Perché una vetrina?

Quel giorno stavo scorrendo il dito tra i profili Instagram. Ma come Instagram esistono decine di social: Facebook, Pinterest, Tinder, Wattpad. Ciascuno ha una propria finalità.

Nella teoria, la finalità che hanno in comune è connettere gente distante, gente che potrebbe essere simile e potrebbe volersi conoscere, ritrovare, fare amicizia. Nella pratica, non sempre il social può essere positivo.

Nella sua declinazione “oscura”, è una maniera per ricercare l’approvazione che da soli non riusciamo a darci, da qui le “vetrine”, le pose “a stampo”, la smania del like anche a costo di mettere da parte la propria individualità, in favore della ricerca.  Ma, nel profondo, di cosa?

Di un’omologazione auto-prodotta. Un’omologazione che scaturisce dalla volontà di accettazione universale, perché finché non sappiamo chi siamo, possiamo essere chiunque e, perché no, perché non essere quel Lui, o Lei, che tanto ammiriamo? Poco importa se ha i capelli biondi e noi siamo mori, ci tingiamo. Poco importa se è alto, basso, magro, grasso, basta che sia possibile imitarlo.

Ma un’imitazione non può diventare l’originale ed ecco che sopraggiunge il senso di inadeguatezza, che prima era solo un sentore. Non si ricerca un Archetipo, un Modello, ma lo stereotipo del periodo, quello che sembra più adattivo al tempo in cui si vive. Ogni tempo ha i propri stereotipi, l’epoca dei social rende il fenomeno solo più evidente.

L’epoca dei social ha anche maggiori nevrosi, maggiori insicurezze, perché è l’epoca delle speculazioni e delle cervellotiche riflessioni frenanti. Il dinamismo è vita. Lo insegnava Eraclito, lo ha ripetuto Nietzsche, lo hanno detto moltissimi filosofi.

Oggi si può rimanere fermi dietro a uno schermo e avere l’impressione di vivere, mentre invece si muore. La connessione più ampia, a livello globale, che permetterebbe il social e che sembrerebbe esserne lo scopo, invero diviene un modo per rifuggire una realtà dove andrebbero affrontati gli occhi delle persone, dove ci si dovrebbe accorgere che tutti abbiamo difetti e non basta un filtro a eliminarli.

Il social è utile se rimane uno strumento, non se diviene il fine.

Il fine dovrebbero essere le persone, l’essere, la vita stessa. 

Il fine dovrebbe essere il mistero intrinseco dell’esistenza, ciò che è sfuggente, frustrante se si vuole carpire con la ragione, ma estremamente liberatorio se si raggiunge tramite il sentimento.

I social non possono dare sentimenti, possono donare piccoli scorci di altre realtà in cui ci si deve tuffare se si vogliono comprendere appieno. I social, non sono fatti di like, sono fatti in primis da persone che cercano loro stesse.

Si può avere un “idolo”, qualcuno da ammirare, ma bisogna tenere presente una cosa. Dobbiamo essere la miglior versione di noi stessi.

È necessario confrontarsi con gli altri, per conoscere se stessi, ma “l’altro” non è uno schermo.

“L’altro” è oltre lo schermo.

Silvia Costanza Maglio