È inizio settembre. Siamo tornati tutti a lavoro. La luce cambia, il caldo ancora no, e la voglia di lavorare non è troppa, ancora memore di quanto si stava bene a bordo piscina.
Ogni movimento è fatto per risparmiare ancora le energie e godersi il tempo libero come meglio si riesce.
Ci si dividono i compiti per riuscire a fare tutto nel meno tempo possibile e avere quello sfizio di “andiamo a berci uno spritz?” o “Andiamo a fare un giro tanto per?”.
È così che una giornata qualunque in cui “Mi fai un favore e passi dal tabacchino?” si trasforma in un viaggio dei ricordi.
Entro dal tabaccaio, per la seconda volta perché mi sono dimenticata una cosa da prendere, e mentre aspetto, le vedo. Quelle caramelle grosse, di pino, ricoperte di quel sottile strato di zucchero.
Le caramelle di una volta.
Mi si apre la scena davanti agli occhi, manco fossi Anton Ego al primo assaggio della ratatouille del topo quando rivive tutti i ricordi della sua infanzia.
Vado alla cassa, sorrido e dico al tabaccaio “Non potevo non prenderle, mi ricordano mia nonna” e lì scambiamo due battute sui negozi di una volta.
Esco con gli occhi lucidi e la pelle d’oca.
I negozi di una volta…
Oggi abbiamo cose preconfezionate ovunque, di tutte le dimensioni, da 10kg di riso a 20 grammi di semi di zucca preconfezionati in plastica. VENTI GRAMMI. Una cosa inimmaginabile. Eppure… ne siamo circondati.
Prima dell’avvento della plastica c’era l’era dei barattoli.
Tu entravi in un qualsiasi negozio, e dietro il bancone, lì in fila uno dietro l’altro, c’erano impilati tutti i barattoli dai contenuti più svariati. Caramelle, frutta secca, snack, di tutto. Quello che oggi troviamo confezionato in 20 grammi di plastica, lo trovavamo comodamente adagiato in un barattolo e sceglievi tu quanto ne volevi, comodamente avvolto in un sacchetto di carta riutilizzabile poi per altri usi.
Torniamo al flashback alla Anton Ego.
Ci siamo io, nonna e mio fratello a prender il pane in panificio. Io piccolina che supero di poco il bancone del pane in altezza, ma alzando gli occhi vedo loro. Dei mega barattoloni di vetro zigrinati, con tutti i tipi di caramelle, di una volta non quelle finte di oggi: le caramelle di pino, le liquiriziette morbide, le anicette, le gocce di pino, quelle al miele che erano un evergreen d’inverno, e molte altre di quelle confezionate nella cartina ma sfuse.
Le mie preferite erano sempre o menta o liquirizia. La liquirizia era proprio un vizio di famiglia.
Così nonna ogni tanto cedeva alla golosità, e soprattutto alle richieste dei nipotini, prendendoci quelle caramelle lì, ben custodite in quelle teche di vetro.
“Dammene proprio due, per i bambini” – ma poi se le gustava anche lei in compagnia. E chi poteva resistere a quelle caramelle lì?
Così quando ho assaggiato quelle caramelle alla goccia di pino da 20 grammi è stato un viaggio attraverso il gusto di una volta, quel gusto di ricordi che hanno solo le cose “dell’infanzia”. Ma avevano un sapore diverso.
Il sapore delle cose già pronte, del preconfezionato, del non poter scegliere quante ne vorrei.
E allora torno al barattolo, a quel ricordo che mi culla in un altro tempo, in un altro modo di vivere.
Stanno diffondendosi sempre di più i negozi “sfusi” con tutti questi dispencer, e questi barattoli dove ci si può servire da soli. È un ritorno al passato, non un viaggio nel futuro.
Forse perché il passato aveva delle basi ben più solide di questo presente effimero avvolto nella plastica.
Le fondamenta dei barattoli in vetro e del profumo che questi contenevano.
Alessandra Collodel