Quel giorno di settembre a NY

Atterrare a New York e non vederle, dava quasi la sensazione di atterrare in un’altra città.

In decollo o in atterraggio, erano lì, fiere, le protagoniste dello Skyline più famoso al mondo.

Senza di loro, NYC aveva perso, insieme a migliaia di vite, la sua identità.

Ogni città si identifica nei suoi monumenti, nei suoi palazzi, nelle sue piazze e nella sua gente.

Quello che successe a NYC e agli Stati Uniti l’11 Settembre 2001, diede a ognuna di noi “giovani” generazioni, tra i fortunati a essere cresciuti lontano dalle guerre, una visione completamente diversa della vita e di quello che viene definito “evil” (diabolico) in un “essere umano”.

Le Torri Gemelle si vedevano dalle strade principali di Manhattan. Ricordo un ragazzo che mi disse: “Non riesco a crederci, quando esco di casa, giro lo sguardo e non sono più lì”. Il “non essere lì”, riguardava una voragine che aveva inghiottito due torri alte più di 400 metri, due Boeing e ucciso migliaia di persone.

Quando sono arrivato a Ground Zero, al WTC (World Trade Center), io, come i miei due amici, non potevamo credere a quello che avevamo davanti.

Il crollo delle Torri aveva coinvolto altri edifici, ma non la St Paul’s Chapel, la cappella di St. Paul, la chiesa più antica di Manhattan, sita a un isolato dalle Torri Gemelle, in linea d’aria proprio sotto.

Quello che mi lasciava senza parole e in uno stato di shock, erano l’ammontare di foto, lettere, messaggi, magliette, cappelli, orsetti…

Lasciati attaccati e appoggiati alle cancellate della chiesa da migliaia di persone, ma soprattutto da coloro che cercavano ancora la loro compagna, il loro papà, il loro figlio, la loro sorella.

C’erano le foto appese, le richieste di aiuto, i messaggi, i numeri di telefono da contattare “in caso di”: quei numeri e quelle lettere, di chi non crede nella speranza ma vive con essa ogni giorno, anche dopo un anno, forse per tutta la vita.

Era la prima volta che mi trovavo di fronte a foto e lettere così “forti”, appese a un cancello e ho sperato anch’io che anche solo per una famiglia, qualcuno avesse suonato alla porta e un miracolo fosse avvenuto.

La Cappella di St. Paul divenne per nove mesi il punto di riferimento e ristoro per tutte quelle persone che hanno aiutato nei soccorsi e negli scavi dopo l’attacco.

I messaggi che si continuavano a sentire a NY e in tutto il mondo, erano messaggi prima di sgomento e condanna, poi di profonda solidarietà.

Molti amici a New York mi hanno raccontato di quella giornata e del fatto che subito dopo l’attacco, tantissimi volontari si fossero presentati per dare una mano.

A NY, una delle metropoli più veloci e “fredde” al mondo, dove tutti corrono, non hanno tempo e se ne hanno, il tempo è denaro, si parlava di amore, di aiuto. Ci si era fermati (come ci si è fermati in questo periodo). Era stato l’atto vigliacco e orrendo, di alcuni “esseri” a far fermare la città più attiva al mondo.

Ground Zero (il punto dove sorgevano le torri) è rimasto con il vuoto dove sorgevano le torri per molti anni.

Per ricordare l’11 settembre, oltre al minuto di silenzio, alle commemorazioni, fu creato nei pressi di quello che era il WTC, il “Tribute in light”, due fasci di luce che si levano al cielo, come le due torri, in memoria delle vite spezzate quel giorno.

Un’opera nata come temporanea che a mio avviso, molto toccante, è diventata un simbolo del ricordo di quel giorno.

Quando andai a vivere a New York, la sera dell’11 settembre, andai a Ground Zero e, come molti altri, portai una candela e restai lì, in silenzio, a guardare queste torri di luce raggiungere l’infinito.

Oggi dove sorgevano gli edifici del WTC, c’è l’11 Settembre Memorial, il museo. Dove sorgevano le torri è stato lasciato il vuoto.

Le fondamenta riempite dall’acqua che scorre come una cascata (twin memorial pools), dove si possono leggere, nei bordi scolpiti, i nomi delle persone ingiustamente uccise quel giorno. Mi ha colpito quella rosa bianca, infilata nel nome.

Alberi e panchine riempiono il piazzale. La Freedom Tower, la torre della libertà costruita in quello che oggi è il One World Trade Center, svetta sopra di noi. Come in un cimitero e, in un giorno qualunque, nella città più viva al mondo, c’è un silenzio come in una bolla, come se il tempo si fosse fermato.

Ho un poster dello Skyline di Manhattan con le due torri, il tipico poster di una Manhattan di notte e le sue luci. È il primo poster che avevo comprato quando mi sono trasferito, l’altro è quello degli operai seduti sulla trave del grattacielo del Rockefeller Center in costruzione, il “Lunch atop a Skyscraper”.

Le Torri Gemelle, dalla loro costruzione negli anni 70, furono gli edifici più alti al mondo per molto tempo.

Per me, lo Skyline di Manhattan resterà sempre quello delle Torri.

Oggi c’è una gara, quasi senza senso, nel possedere il grattacielo più alto. Una gara per vedere chi ce l’ha più alto. Con tutto il rispetto, la vedo una gara tra uomini, da sempre in competizione con le misure.

Eppure, dopo tutti i grattacieli che ho visto, i più semplici e significativi di tutti mi sono rimasti nel cuore: due fasci di luce che raggiungono non solo il cielo ma anche l’anima.

Non è un’idea utopistica quella di vedere svanire l’odio. Ad odio si risponde con amore non con altro odio, facile non è di sicuro, ma se pensassimo prima di fare l’ennesima fiaccolata o giorno del ricordo, forse ne avremmo sempre meno.

Prima di farli scomparire, quanto mi piacerebbe vedere uscire i fiori dalle pistole, dai cannoni, sai che sorpresa per quello che spara.

È importante ricordare ogni giorno l’amore e l’unità che c’è stata a NY dopo il terribile attacco.

La stessa unità che c’è stata a Parigi e in altre città, colpite da questi atti. L’11 settembre è iniziata con un cielo terso, la tipica bellissima giornata di settembre a NY, è finita con l’oscurità, in un cielo nero e cupo.

Il cielo blu è tornato, con una grossa cicatrice ma è lì a ricordarci la bellezza di una giornata di sole e di commemorare le persone che se ne sono andate così brutalmente, vivendo in pace.

Non è un messaggio del Papa, solo di uno di quelli che crede che il bene, alla fine, vinca sempre.

A NYC

Andrea Colombera