Favola

Cari lettori per questa edizione vi invito a leggere una favola e a ricavarne la morale.

La mela acerba.

Un tempo esisteva una grande tenuta, lontana dal caos delle città, che abbandonata da ogni essere vivente, era diventata un enorme deposito di spazzatura.
La gente raccontava che lì venivano seppellite le vittime degli omicidi, e, per questo motivo, le persone per bene stavano ben attente a tenersi alla larga da quel posto maledetto.
Un bel giorno un Signore molto ricco e generoso si trovò a passare di là ed intuì che, sotto quella montagna di rifiuti e letame, doveva celarsi una specie di “Paradiso terrestre”.

Si mise al lavoro, con lena: eliminò la crosta sporca che ricopriva il prato; liberò gli alberi dal peso degli impiccati; spruzzò un potente deodorante al “profumo di bosco”. Dopo aver ritoccato l’ultimo raggio di sole, guardò soddisfatto il risultato e si mise tranquillo a riposare.
Si risvegliò fra un gran baccano, ancora con gli occhi semichiusi, vide un gran traffico di ombre accanto a lui. “Non ho mica disegnato mucche io!”, pensò, piuttosto perplesso. “E nemmeno cani e uccelli e… quei due, da dove saranno sbucati?”
Si mise a osservarli e notò che tutti erano increduli e felici, si rotolavano nell’erba e giocavano e gridavano di gioia, e si estasiavano a guardare tutto quel bene di Dio.
Il signore, allora, sorrise, bonario e decise di indire una riunione plenaria per quello stesso pomeriggio, per conoscere i suoi ospiti ed illustrare le caratteristiche della tenuta.

Quando tutti si furono accalcati nella grande radura, il signore iniziò a parlare: “Credo che qui ci sia posto per tutti voi”. Si fermò a guardare i presenti e vide tutte le specie di animali, tra cui molte che non conosceva, e poi i due umani, un maschio e una femmina, tra i più belli esemplari che avesse mai visto. “Qui c’è solo felicità” continuò soddisfatto, “non sarà mai freddo, troppo caldo, e la notte verrà solo per cullare il vostro riposo. Gli uccelli non temeranno il fucile, i cani il calcio dell’uomo; il maiale, né altri animali verranno mai sacrificati, né dall’uomo, né dalla belva, perché qui ovunque c’è da mangiare per tutti. Seguitemi”, disse avviandosi, ” vi spiegherò ogni cosa”. mostrò loro le bacche, e i frutti, le radici dolci e quelle forti e indicò le proprietà di ognuna e descrisse i sapori e gli odori, così che ognuno potesse sentirli e goderli.

Arrivarono infine ad una macchia, e qui il signore si fermò a pensare, grattandosi in testa. “Qui”, disse dopo un po’, “cresce una pianta che non dovete mangiare”. L’uditorio bisbigliò, “È molto pericolosa, è diabolica, offusca la mente. È un’erba malvagia perché illude chi la prende di essere forte e imbattibile e lo induce a fare errori. Dovete assolutamente evitarla, se volete mantenere in piedi questa società”.
I presenti commentavano il fatto, guardando con sospetto la pianta incriminata e cercando di fissare bene nella mente le sue fattezze, così da starle alla larga.

“L’erba della cattiva informazione”, riprese il signore, puntando il dito verso la pianta, “è l’unica cosa di questa tenuta che non dovete toccare”. Tutti gridarono, entusiasti, che il cibo era comunque in abbondanza e che non sembrava esserci bisogno di ricorrere proprio a quella pianta.
“Ancora una cosa” (la voce del signore bastò a rimettere ordine). “Quando ho creato il melo, avevo finito la vernice rossa, per cui i suoi frutti sono ancora acerbi. Badate, è l’unico albero con i frutti verdi, però è anche l’unico che maturerà insieme a noi, così che, quando sarà pronto, il sapore dei suoi frutti sarà dissimile da ogni altro e mangiarlo vi darà una felicità ancora più grande di quella che ora state provando. Abbiate fiducia in quello che vi ho detto e ricordate le mie parole”.

La folla si sparpagliò per tornare ai suoi giochi o per cercare questa o quella bacca, o radice, o frutto, che il signore aveva descritto come “celestiali”. Anche gli umani, che per comodità chiameremo Adamo e Eva, si abbandonarono a quella gioia sconosciuta e senza limiti che il posto offriva.
Per nessuno dei presenti sembrava esserci problema alcuno, senonché Adamo (ed abbiamo notizie precise circa la sua responsabilità), passato il primo momento di euforia, e nonostante l’oracolo gli avesse dato 4 – la stoltezza giovanile -, cominciò a chiedersi perché mai quell’uomo, – il signore, come si faceva chiamare -, dovesse poi dominare tutti gli altri e decidere le regole da rispettare. “Forse”, pensò con la malignità tipica degli uomini, “forse quell’erba magica (diabolica, ha detto?), può darmi il potere che ha ora lui”. Non pensò, il meschino, che aveva già con sé l’immenso potere della felicità, non pensò che in quel modo poteva forse rovinare la felicità di tutti gli altri. Andò alla macchia. Riconobbe facilmente l’erba della cattiva informazione, la strappò, mordendola forte, ed un disgustoso sapore amaro gli inondò la lingua, il naso, quasi soffocandolo. Cadde a terra gemendo per la nausea, ma la tentazione era forte e il desiderio di potere grande, tanto da indurlo a riprovare. Spezzò un ramo con le mani superando il ribrezzo che il liquido giallo e a appiccicoso gli procurava scivolandogli sulle braccia. Masticò una foglia, poi un’altra e, piano piano, la nausea svanì; la pianta assumeva un altro sapore, man mano che lui la mangiava.

Ad un tratto si sentì enormemente forte, e lucido, balzò in piedi e credette di poter vedere ciò che accadeva alle sue spalle senza voltarsi; fu sicuro di volare e di essere cento, mille volte più grande di quanto fosse in realtà.
Era vero. Quello che lui aveva sospettato, a ragione, gli strani poteri del signore, la sua grandezza, dipendevano certamente da quella pianta. “E adesso”, pensò, con rinnovata malafede, “voglio assaggiare le mele verdi e scoprire quale altro inganno si cela in questa raccomandazione”. Quando giunse all’albero restò perplesso perché le mele spiccavano rosse nel fogliame giallo. Non badò, nella foga della sua esaltazione, al fatto che il cielo gli apparisse paonazzo, e i prati blu, e il sole nero: non badò a nulla, accecato com’era dal desiderio di denigrare il signore.

“Poco male”, pensò, “adesso proverò una grande felicità e, anzi, potrei raccoglierne tante così da essere tanto felice”. Staccò un frutto e lo addentò voracemente, succhiando forte quanto più poteva. L’orrore, l’infelicità, tutte le brutture del mondo entrarono nella sua bocca e nel suo stomaco e sembrò che squarciassero ogni organo che incontravano nel loro percorso.
Scoppiò, suo malgrado, in un pianto disperato e cominciò a rotolarsi per terra gemendo, picchiandosi in testa, strappandosi i capelli con rabbia e un odio che sembrava non potesse in alcun modo contenere. Le tartarughe, che pochi distante tenevano una riunione allo scopo di liberarsi dalla corazza, inutile in quel luogo, sentirono queste grida disperate e corsero – si fa per dire – a vedere di che si trattava.

Adamo spiegò a tutti dell’inganno: rivelò loro le benefiche proprietà dell’erba della cattiva informazione (ah! la stoltezza giovanile!), e il raggiro delle mele rosse, e tanto forte era la sua disperazione e tanto copiose le sue lacrime che i presenti gli credettero. Ed erano molti, perché il tono concitato della sua voce aveva attirato un bel po’ di folla – Eva compresa – che ascoltava il suo racconto con molta partecipazione.

L’indignazione generale che seguì fu placata dallo stesso Adamo che, ormai certo di aver raggiunto il suo scopo, disse: “Non vorrei che questo fosse preso come un tentativo di denigrare il signore: invito tutti a verificare quanto ho detto, sperimentandolo personalmente”.
Si avviò alla macchia, seguito da quella massa credulona e volta bandiera, e allo stesso tempo eccitata dall’illusione di poter autogestire quello spazio cacciando il signore.

Ci furono mille e mille grida e mugoliì di disgusto, all’inizio dell’esperienza, ma infine tutti masticarono l’erba e si sentirono forti, e cominciarono ad insultarsi l’un l’altro, e ad azzuffarsi, ed in breve fu tutta una rissa generale.
Adamo li richiamò all’ordine. Ricordò che avevano un compito da portare a termine e che dopo avrebbero potuto continuare a scannarsi quanto volevano. Tutti convennero e si diressero verso l’albero di mele, pronti alla seconda prova.

Anche gli altri videro solo le mele rosse, anche gli altri le morsero, le sputarono, si disperarono.
“Queste mele sono un vero schifo”, gridò a squarciagola la giraffa e prese a dare testate ai rami e a strappar via le foglie e i frutti. “È vero, abbattiamo il melo” gridarono altri in coro, e fu tutto un susseguirsi di calci, cornate e colpi dati come si poteva, mentre il melo si piegava inesorabilmente a quella cieca critica.

Di lì a poco si trovò a passare il maiale che invano aveva perso tempo cercare in quella terra perfetta una pozzanghera fangosa, e non aveva seguito i fatti. “Cosa state combinando, fratelli? Cosa vi ha preso, insomma!?!” Il maiale gridava e cercava invano di farsi un varco tra la folla per raggiungere il povero albero martoriato. “Fratelli, vi prego, volete spiegarmi?”
“Toh, prova una di queste, vedrai che felicità!”, così dicendo, l’orso gli lanciò una mela proprio sulla testa, così che il povero animale cadde svenuto per un certo tempo.

Quando riprese i sensi davanti a lui c’erano i resti laceri dell’albero sparsi tutt’intorno selvaggiamente e gli altri erano spariti. Tutto quel Paradiso era svanito e dal suolo si sollevava un fumo acre e denso, puzzolente anche, che sembrava coprire mucchi di spazzatura. Il maiale raccolse il frutto lanciatogli dal suo amico, lo guardò, quindi, lasciandolo cadere disse, piangendo sommessamente: “Ma era verde! era ancora verde!…”

Maura Luperto