Cos’è la creatività?
È una domanda formulata male perché sottintende un presupposto destinato a rimanere nascosto e pertanto pericoloso.
Se la creatività fosse qualcosa, allora avrebbe una particolare qualità sostanziale e sarebbe possibile distinguere gli individui a seconda della presenza o dell’assenza in essi di questa specifica qualità. Consisterebbe in una sorta di dono divino, concesso ad alcuni e negato ad altri.
La particolare espressione della creatività individuale, la sua messa in opera nell’arte, nella scienza, nell’oggetto di una qualsiasi azione umana, permetterebbe l’accesso ad un mondo segreto, consentito solo ad alcuni privilegiati, quando conduce alla luce di una rivelazione, o dannati, quando porta a sviare lo sguardo verso territori oscuri, le tenebre popolate da immagini inquietanti.
Nel corso della storia della nostra cultura, l’effetto visibile della creatività, opera d’arte o innovazione nel cammino della conoscenza, è stato accolto come progresso, o condannato come eresia, considerato un’illuminazione della verità nascosta delle cose, o una ingannevole imitazione della realtà, accolto come catarsi salvifica, o condannato come peccaminoso cedimento dei sensi, innalzato ad oggetto di culto o condannato come fonte di idolatria… Ma non basta: infatti, almeno da un certo momento in poi, la creatività è stata vista non più come sostanza, o come attributo di una sostanza, qualitativamente differenziata, ma come una funzione caratteristica dell’individuo, quindi in teoria una qualità misurabile. Da qui la distinzione fra individui più o meno creativi in base a quanta creatività possedevano.
È possibile definire con precisione il momento in cui avviene questo cambiamento ed è lo stesso istante in cui nasce il “cogito ergo sum ” di Cartesio: la cosa che pensa, il pensiero che si riconosce come residuo irriducibile del dubbio più radicale, ma che si ritrova irrimediabilmente distinto e scisso dal corpo, a sua volta costretto nel mondo della res extensa, il mondo della materia in movimento e della casualità meccanica. (Schopenhauer 1819) Ridotto a testa d’angelo alato, privato del corpo che sente, tranne che per il tenue legame di trasduzione meccanica dei dati sensoriali garantito dalla ghiandola pineale, il cogito cartesiano rimane così esposto all’assalto delle passioni, che dal corpo si originano e che l’Io-penso non può che subire.
Ciò che ne nasce, l’odio e l’amore, e tutte le nostre emozioni, non possono più costituire uno strumento valido di conoscenza, né tantomeno costituirsi come oggetto di conoscenza scientifica. La loro espressione non ci dice nulla del mondo, né noi possiamo dire nulla di esse e di come influiscano sulla nostra conoscenza di noi stessi e del mondo. Di volta in volta residui inconoscibili dell’Io, presupposti che formano le azioni degli uomini, o risultati di processi meccanici di somme o di sottrazioni di processi elementari, le emozioni non sono più uno strumento che incide sul mondo.
Cosa si nasconde nelle profondità della nostra anima?
Cosa ci spinge ad amare o ad odiare?
Cosa pulsa nell’abisso da cui hanno origine le bassezze o le grandezze umane?
Quale divario esiste fra la Ragione e gli istinti? Se l’artista crea spinto dalle passioni, non è forse il mondo della follia che domina la creatività?
Maura Luperto