Avete mai visto quelle splendide farfalle chiamate “pavone”? Sono piuttosto grandi e i colori delle loro ali ricordano la coda di un pavone. La faccia superiore delle ali è di color rosso scuro con quattro evidenti e caratteristiche macchie nelle quali le squame nere, arancio, azzurre, lilla e bianche, compongono disegni a forma di occhi… occhi spalancati che ti guardano, ti ammaliano, t’ipnotizzano, mentre tu li ammiri.
Non è raro vedere queste farfalle nei nostri prati e io sono sempre stato ammaliato quando me le sono viste svolazzare leggiadramente attorno.
Ricordo che un giorno della scorsa primavera, sdraiato ai bordi di un prato sotto l’ombra di pino silvestre, dopo averne vista una, mi addormentai e feci uno strano sogno. Mi sembrò di essermi trasformato in quella farfalla.
Mi librai in aria senza più peso spinto solo dalle correnti d’aria ascensionali che mi portarono su, su, sempre più su. Avevo già visto il mondo dall’alto, dai finestrini di vari aerei, ma ora era molto diverso: il mondo mi scorreva sotto nel silenzio totale e percepivo ogni alito d’aria e ogni profumo. Le ali erano parte di me e ogni loro movimento mi faceva salire o scendere o virare o planare. Inizialmente fui sopraffatto dal vento che mi conduceva dove voleva lui.
Poi presi coscienza della mia capacità di dominare lo spazio con la forza delle mie ali e cominciai ad andare dove preferivo io.
Vidi foreste, campi, ruscelli e fiumi. Mi avvicinai a loro quasi a sfiorarli per percepirne i rumori, gli odori e la loro forza naturale. Tutto bello, tutto espressione della natura come fonte di vita e di energia soprannaturale. Forse perché era un sogno, non percepivo pericoli di sorta attorno a me, solo… sola beatitudine immensa.
Probabilmente il mio corpo addormentato sotto l’albero percepì qualche lontana voce umana perché improvvisante nel mio sogno, mi venne di pensare: perché non vado a vedere cosa fanno i miei simili? Chissà come li vede una farfalla.
Così tornai a volare alto e vidi la città nemmeno tanto lontana, ma incredibilmente sfuocata così immersa in una nebbiolina grigia che ne nascondeva i particolari. Man mano che mi ci avvicinavo ai profumi si sostituirono odori sempre più grevi e sgradevoli e il rumore mi tolse il fiato tanto che dovetti farmi forza per proseguire.
Quando fui sulla città, vidi sotto di me movimenti di uomini e macchine cosi caotici e assurdi che era difficile distinguerli singolarmente. Decisi di non abbassarmi a livello della strada anche perché il mio corpo percepiva un gran caldo che saliva da quei gironi infernali.
“Vediamo cosa fanno i miei concittadini in quelle case. Da qui sembrano tutte grandi scatole. ..” pensai
Svolazzando mi avvicinai a un piano alto di un palazzo di color giallo. Ed ecco, proprio all’ultimo piano, una serie di finestroni tutti chiusi. Alcuni bocchettoni dell’aria condizionata buttavano fuori aria ancor più calda di quella esterna. Me ne tenni distante e mi avvicinai a un vetro cercando di guardare dentro.
C’erano tanti tavoli, tanti computer e tanta gente, chi seduta alla sua postazione, chi in piedi che si muoveva da una parte e dall’altra. Probabilmente si trattava della redazione di un giornale o di un grande call center. Molti avevano cuffia e microfonino davanti alla bocca. Sarei voluto entrare per farmi vedere meglio, ma non c’era nessuna fessura che me lo consentiva. Cercai di farmi vedere anche così muovendomi con energia accanto al vetro e cercando sempre di mostrare gli occhi magnetici delle mie ali coloratissime.
Nessuna reazione. Eppure non doveva essere usuale veder svolazzare una così bella farfalla proprio a pochi metri da se. Possibile che nessuno si facesse distrarre dalla mia singolarità e bellezza e dai miei colori? Tutti così presi dal loro lavoro da non avere neanche il tempo, ma, soprattutto, l a voglia di guardare fuori dalla finestra?
Alla fine girai l’angolo del palazzo e proseguii accanto a una finestra più piccola. Dentro, alcuni tavoli, delle macchine dispenser, dei distributori di caffè. Alcune persone si aggiravano li, nella sala ricreativa. Pur trattandosi del loro momento di pausa, nessuno sembrava rilassato, anzi, tutti con il loro telefonino in mano continuavano a parlare probabilmente di loro cose private e trafficavano con le tazzine del caffè e con le sigarette che, quasi tutti avevano accesa tra le dita. Infatti, lì dentro stagnava una nebbiolina perenne.
Rifeci la mia pantomima anche lì fuori, anzi, sapendo che non mi sarei potuto far male, cominciai a sbattere contro il vetro producendo dei colpetti sordi che non potevano non essere sentiti. Risultato… qualche occhiata infastidita.
Poi improvvisamente notai una signora che mi fissava senza distogliere gli occhi. Era di mezza età, con i capelli castani e sorseggiava il suo caffè anche lei con lo smartphone all’orecchio. Fui felice di essere finalmente riuscito ad attrarre l’attenzione di qualcuno e mi mossi per mettere più in evidenza le mie ali colorate. Agli occhi della donna rimasero fissi, senza seguire i miei movimenti; così capii che non stava guardando me, ma fissava il vuoto attenta solo a quello che le diceva il suo interlocutore. Di me non gli importava nulla. Mi allontanai da quel palazzo un po’ confuso.
Ripresi a girare sopra gli edifici e scrutando in giù scelsi di scendere in una piazzetta dove c’erano i tavolini di un bar. Quasi tutti i tavoli erano occupati da ragazzi e ragazze sui dieci, dodici anni. Probabilmente avevano finito di studiare e si erano dati appuntamento lì.
Man mano che scendevo verso di loro mi aspettavo di sentire il loro chiacchierio, le loro risa, i loro sfottò. Invece niente. Sorpreso, mi chiesi cosa fosse successo e planai ancora più incuriosito. Erano tutti seduti ai tavolini con la loro bibita davanti, una Coca Cola, un’aranciata una Sprite e tenevano la testa bassa tanto che alcune ragazze avevano il viso coperto dai loro capelli più lunghi. Stavano fissando in basso sotto il bordo del tavolo.
Mi misi a volteggiare tra di loro e finalmente vidi cosa stavano facendo, smartphone tra le mani stavano digitando sulla tastiera con i due pollici velocissimi che sfioravano i tasti. Gli unici rumori che si sentivano erano i diversi avvisatori acustici degli apparecchi che avvertivano dell’arrivo dei diversi messaggini. Nonostante il fruscio delle mie ali si captasse ogni volta che mi avvicinavo ai loro volti, nessuno alzava gli occhi per vedere che cosa li sfiorasse. Solo qualcuno alzava una mano e cercava di scacciare meccanicamente e nervosamente il disturbatore che li voleva distrarre. Più di una volta fui sfiorato da queste mani, ma penso che nessuno di loro mi abbia neanche visto. Fu una cameriera che notò la mia presenza e venne fuori dal bar, non per ammirarmi ma per scacciarmi con un tovagliolo bianco, quasi fossi un calabrone o una vespa indesiderata. Capita l’antifona, ripresi a salire i vortici caldi dell’aria, ancora deluso ma sempre deciso a cercare il contatto con qualche persona. M’imposi di trovare il modo di entrare in una casa, mi avvicinai a un palazzo rosa di quattro piani con una grande terrazza sul tetto piena di panni ad asciugare.
Era evidente che si trattava di un palazzo di abitazioni. Al secondo piano vidi un balcone con alcuni vasi di fiori sia a terra che sul porta vasi. I fiori erano di diversi colori e ben curati, cosa che denotava che lì c’era qualcuno che apprezzava la natura. La porta che dava sul balcone era completamente aperta così non ebbi difficoltà a infilarmi nell’appartamento. Non riuscii a vedere l’ambiente nel quale ero entrato perché improvvisamente qualche cosa mi sfiorò causando uno spostamento d’aria violento che mi fece capovolgere. Dovetti ricorrere a mosse istintive per riprendere il normale assetto di volo e non cadere a terra. “ Vattene bestiaccia… ho appena pulito tutto qui dentro!” E ancora una volta fui spostato da una folata di vento destabilizzante. Finalmente riuscii a vedere cosa stava succedendo.
Una donna piuttosto anziana mi stava inseguendo agitando una scopa con l’intenzione di schiacciarmi o, quanto meno, di buttarmi fuori dalla veranda dalla quale ero entrato. Nell’intento di evitare la furia della donna, invece di cercare di uscire fui indirizzato più all’interno dell’appartamento.
Già le grida dell’energumena m’infastidivano moltissimo, ma altri strilli si sovrapposero quasi a stordirmi. Non erano altre parole, ma urla incontrollate sicuramente di un bambino. Vidi che il nuovo locale in cui ero entrato era la camera di un pupetto di pochi mesi che, seduto su un seggiolone legato ben saldo, agitava freneticamente le braccine probabilmente per attrarre l’attenzione di qualcuno.
La mia cacciatrice era entrata anch’essa nella stanza e con il manico della scopa impugnato con entrambe, la mano era rimasta lì indecisa sul da farsi, forse agitata dal pensiero di poter far male al bimbo. La donna mi guardava con gli occhi spiritati “Non avvicinarti a lui. Sciò, sciò …” adesso agitava una mano verso di me, forse per impaurirmi.
Poi improvvisamente il bambinetto mi vide e si zitti di botto con una manina rivolta verso di me quasi a indicarmi. Il suo faccino esprimeva contentezza, i suoi occhietti erano sbarrati e fissi “ Assunta ferma!” Un’altra donna, più giovane e carina dell’altra, era entrata nella stanza. “ Non vedi che è una farfalla, non può far del male al bambino. Vediamo cosa fa”.
Così, quasi invitato dalla giovane donna a farlo, scesi delicatamente e mi posai sul portavivande del seggiolone vicinissimo al bimbo e con le mie ali aperte per fargli vedere meglio gli occhi delle mie ali e i colori sgargianti. Il bambino con la bocca aperta dallo stupore e lanciando piccoli gridolini di felicità non
staccò mai i suoi occhi da me talmente assorbito dalla mia bellezza che sembrava in trance al punto che, pur essendogli tanto vicino, non cercò mai di toccarmi.
Anch’io fui distratto dallo stupore e dalla felicità del bimbo tanto da dimenticare le altre persone nella stanza. Queste avrebbero potuto prendermi per le ali quando avessero voluto. Ma non lo fecero perché anche entrambe le donne furono ipnotizzate dalle mie ali. Il mio carisma naturale aveva trovato modo di ammaliare ancora degli umani e ne andai orgoglioso e contento.
Con uno svolazzo di colori mi librai verso la luce proveniente dalla finestra della stanza. La donna più giovane aprì i vetri per consentirmi di uscire. Diedi un’ultima occhiata all’ambiente e vidi che la bocca del bimbo si stava piegando nella classica espressione del pianto. Udii le sue grida disperate fino a che man mano non si attenuarono mentre salivo nel cielo.
Improvvisamente fui sveglio. La suoneria del mio smartphone gracchiò per farmi tornare alla realtà. Vidi che mi chiamavano dal lavoro e fui incerto se rispondere o no, decisi che dopo quel sogno era giusto non rispondere, ben sapendo che avrei dovuto farlo presto. Quando anche l’ultimo barlume di quel sogno fosse sparito, sarei tornato a essere un morto vivente come gli altri. O forse no? Se fossi riuscito a rievocare in me la genuinità di quel neonato di fronte alla bellezza del Creato. forse avrei potuto scollegarmi dalla quotidianità quel tanto che sarebbe bastato per rendere onore all’Universo, anche solo per qualche attimo per volta.
Massimo Milone