In un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience un team di ricercatori della Sapienza, delle università di Palermo e Ferrara e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.
Il carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile.
Il carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza a essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi e i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.
Ma quanto carbonio è immagazzinato all’interno della Terra? Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra.
Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di carbonio nel mantello.
In un nuovo studio, recentemente pubblicato sulla rivista Nature Geoscience, Vincenzo Stagno del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, insieme con ricercatori delle università di Palermo e Ferrara e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche. I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità), che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot, contiene in media 350 parti per milione (ppm) di carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità.
Le nuove stime ottenute dai ricercatori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di questo elemento.
In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot.
I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.
L’esistenza di un mantello ricco in carbonio ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del carbonio primordiale nel mantello e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio.
I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.
Riferimenti: Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle – Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello – Nature Geoscience (2021) https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y