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Siamo bravi davvero o ci illudiamo di esserlo?

Un gruppo di studiosi dell’Università di Bologna (Campus di Cesena) ha mostrato per la prima volta come le nostre capacità “oggettive” da un lato e la consapevolezza “soggettiva” di queste nostre capacità dall’altro siano legate a due network cerebrali distinti: per questo la nostra rappresentazione interna del mondo non sempre corrisponde ad una rappresentazione fedele della realtà.

C’è chi è convinto di essere un grande cantante, ma non riesce a fare a meno di stonare. E c’è chi è convinto di non saper cantare, ma una volta messo alla prova rivela invece ottime capacità canore. Perché il livello delle nostre abilità e la consapevolezza che ne abbiamo non sempre corrispondono?

Un gruppo di studiosi dell’Università di Bologna ha cercato risposte a questo interrogativo utilizzando una serie di tecniche di neurostimolazione non invasiva. I risultati – pubblicati sulla rivista PLOS Biology – mostrano che c’è una dissociazione a livello cerebrale tra due network neurali distinti: uno legato all’acquisizione di competenze e uno responsabile della consapevolezza delle proprie abilità.

“Il nostro studio mette in evidenza per la prima volta come l’acquisizione di competenze da un lato e la consapevolezza delle proprie abilità dall’altro siano sono aspetti dissociabili della nostra esperienza“, spiega Paolo Di Luzio, primo autore dello studio, realizzato presso il Centro Studi e Ricerche in Neuroscienze Cognitive dell’Università di Bologna, al Campus di Cesena. “I due network che abbiamo identificato intervengono su aspetti diversi dei nostri processi percettivi e decisionali e questo potrebbe spiegare perché non sempre competenza e consapevolezza vanno di pari passo”.

In passato, il gruppo di ricerca dell’Alma Mater era già riuscito a dimostrare che è possibile migliorare artificialmente le nostre capacità cognitive (ad esempio la capacità di riconoscere oggetti in movimento) stimolando ripetutamente l’area cerebrale responsabile della percezione del movimento (area V5) e l’area che riceve il primo input visivo (area V1). Il nuovo obiettivo era capire se la consapevolezza che abbiamo delle nostre capacità fosse legata allo stesso network cerebrale o ad un secondo network distinto.

Per farlo, gli studiosi hanno messo a punto un esperimento, che ha coinvolto 51 persone. Partendo da un insieme di punti in movimento presentati su uno schermo, ai partecipanti è stato prima chiesto di identificare se i punti si muovessero in modo coerente verso destra o verso sinistra, e in seguito è stato chiesto loro di valutare quanto erano sicuri delle risposte date.

I partecipanti, però, hanno eseguito i compiti richiesti in tre distinte condizioni di neurostimolazione non invasiva. Nella prima condizione è stata testata la funzione del network già individuato in passato, che coinvolge l’area cerebrale responsabile per la percezione del movimento (area V5) e l’area che riceve il primo input visivo (area V1). Nella seconda condizione è stato invece testato il coinvolgimento di un altro network che collega l’area che riceve il primo input visivo (area V1) con l’area parietale, nota come IPS. La terza condizione era infine quella di controllo.

“In linea con i nostri studi precedenti, l’esperimento ci ha permesso innanzitutto di confermare che la stimolazione del network che avevamo già individuato (V5-V1) aumenta la capacità che i soggetti hanno di riconoscere accuratamente la direzione di stimoli in movimento”, dice Alessio Avenanti, professore al Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “Al contrario, la stimolazione del secondo network, quello che coinvolge l’area che riceve il primo input visivo (area V1) e l’area parietale, non migliora la capacità dei soggetti di svolgere correttamente il compito richiesto”.

Se passiamo però dalla valutazione oggettiva delle capacità di riconoscere accuratamente la direzione di stimoli in movimento al livello di consapevolezza che i partecipanti avevano rispetto ai risultati ottenuti, il quadro dei risultati risulta totalmente invertito.

“Abbiamo visto che la stimolazione del secondo network, quello tra l’area parietale e l’area V1, migliora la consapevolezza che i partecipanti hanno della loro performance, senza modificare i risultati della prestazione in sé”, conferma Avenanti. “E al contrario, la stimolazione del primo network (V5-V1) non migliora il livello di consapevolezza soggettiva della performance dei partecipanti, pur migliorando oggettivamente i risultati finali”.

Ci sono insomma due network cerebrali separati. Il primo è responsabile delle nostre capacità “oggettive”, mentre il secondo è legato alla consapevolezza “soggettiva” di queste nostre capacità. Nella nostra esperienza quotidiana, questi due meccanismi sono di solito integrati: scopriamo ora però che vengono generati da circuiti neurali diversi, i quali si scambiano continuamente informazioni.

“Questo studio dimostra per la prima volta che l’abilità percettiva da un lato e la formazione della consapevolezza della propria prestazione dall’altro sono frutto di meccanismi indipendenti“, conferma il professor Vincenzo Romei, che ha coordinato la ricerca presso il Centro Studi e Ricerche in Neuroscienze Cognitive dell’Università di Bologna. “Il modo con cui questi due meccanismi si influenzano l’uno con l’altro rimane però una questione aperta, e di estrema rilevanza per la comprensione della complessità del comportamento umano“.

Essere consapevoli delle proprie capacità può infatti rivelarsi vantaggioso nell’interazione con il mondo esterno: se sappiamo di essere stonati evitiamo di esibirci in pubblico, e al contrario se sappiamo suonare molto bene il pianoforte ci esibiamo volentieri. Questa rappresentazione interna delle nostre capacità non è però pensata per essere fedele alla realtà, ma per ottimizzare le nostre capacità di adattamento: se fin da piccoli i nostri genitori ci dicono che cantiamo benissimo, noi possiamo finire per convincercene anche se non arrivano altre conferme, e chi la pensa diversamente è un invidioso.

“Possiamo scegliere una rappresentazione interna del mondo che non corrisponde ad una rappresentazione fedele della realtà, se questa scelta è per noi la meno costosa e la più funzionale al nostro adattamento: in questi casi l’integrazione tra elaborazione del segnale e modello interno tendono a dissociarsi, piuttosto che a integrarsi“, dice in conclusione Romei.

“Il riconoscimento di tali dissociazioni a livello comportamentale e neurale potrebbe portare all’identificazione di diversi profili cognitivi e in casi più estremi anche di condizioni psichiatriche“. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS Biology con il titolo “Human perceptual and metacognitive decision-making rely on distinct brain networks“.

Gli autori sono Paolo Di Luzio, Luca Tarasi, Alessio Avenanti e Vincenzo Romei del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, Campus di Cesena, insieme a Juha Silvanto della University of Surrey (Regno Unito).