Perché L’isola di Arturo?
Forse perché davanti a un romanzo narrato in prima persona da un ragazzino, io non so resistere.
Vogliamo parlare di Holden Caulfield, Huckleberry Finn, Giovannino Stoppani?
Ma nel romanzo di Elsa Morante anche l’ambientazione ha esercitato un proprio fascino, specie per me che sono siciliana:
L’isola.
E non importa che quella di Arturo sia Procida.
Perché gli isolani sono fatti tutti allo stesso modo e come diceva Vittorio Nisticò si dividono in due categorie: ci sono quelli di “scoglio” e quelli di “mare aperto”.
I primi sono quelli che per nessuna ragione lascerebbero mai l’isola (come me). I secondi sono quelli che prendono il largo e non li vedi più (come Arturo).
Ma andiamo con ordine.
Arturo è un ragazzino un po’ selvatico la cui madre è morta dandolo alla luce e il padre è molto spesso in viaggio. Trascorre quindi le sue giornate da solo fantasticando tra le spiagge incontaminate e le colline verdeggianti della sua isola che serba tutti i colori e gli odori del Mediterraneo.
Quando compie quattordici anni, il padre fa ritorno a Procida con una sposa giovanissima, Nunziatella, più grande di Arturo di solo un anno.
Nei confronti di questa matrigna-bambina, Arturo inizierà a nutrire sentimenti contrastanti: odio ma allo stesso tempo un’infatuazione sempre più simile all’amore.
E proprio l’amore per Nunziatella insieme alla caduta del mito paterno saranno determinanti per concludere il suo arco di formazione spingendolo a lasciare l’isola e a prendere il largo.
“Ma no, anche l’estate, invece, sarebbe tornata immancabilmente uguale al solito. Ed era un’orrida gelosia che mi amareggiava, questa: di pensare all’isola di nuovo infuocata dall’estate, senza di me!”.