Di Matteo Abozzi
Gli era passata la voglia di fumare. Il robot lo guardava con uno sguardo vuoto, aspettando istruzioni sul da farsi. Jonathan rimase per un po’ di tempo a guardarlo, fino a che non gli fece segno di entrare nel ristorante.
«Senti, Lorenz.» «Mi dica, signore.»
Il robot gli stava davanti e per rispondere all’umano girò la testa di 180 gradi. Una cosa del genere avrebbe fatto venire la pelle d’oca a qualsiasi persona. Jonathan aveva la sua, di testa, da qualche altra parte, altrove. Pensava ancora alla sigaretta. Il robot quasi come se fosse schiavo di un istinto gliel’aveva strappata dalle dita.
«Ecco, come saprai le persone non sono più abituate alla visione di un…» «Di un cosa?»
«Beh…» non si sentiva di chiamarlo robot «di… un robot.» «Certo, signore. Cercherò di non farmi notare.»
Parole difficili, pensava Jonathan. Tra Lorenz e le altre persone nel ristorante c’era un piccolo particolare che faceva la differenza: gli uomini avevano pelle e sangue, i robot metallo e carburante.
«Signore, se vuole posso mangiare.» «Mangiare? I robot non mangiano il cibo umano.» «Lei ha impeccabilmente ragione, Jonathan. Ma vede, se mi venisse chiesto io non potrei certo mangiare o dormire, ma simulare queste azioni. Nel caso specifico del cibo e del liquido, i miei inventori avevano previsto questo bisogno, dunque hanno integrato nel mio corpo uno stomaco meccanico, dove tutto ciò che ingerisco va a finire.»
Il robot andava al bagno? E cosa avrebbe tirato fuori? Bulloni?
«Se lo dici te. Basta che non ti guasti. Ho bisogno dei soldi.» «Non si preoccupi.»
Jonathan odiava i sorrisi falsi, quella che lui chiamava tra sé e sé la dittatura del sorriso: i poveri lavoratori costretti a dover sorridere a tutti, pur di guadagnare. Ma anche i sorrisi tra amici e conoscenti, tutti costretti a sorridere, pur di non essere soli. Martha non era così, per questo Jonathan era attratto da lei. Si incontrarono in un negozio di mobili per casa, a Jonathan serviva un tavolino per i telecomandi della TV (li perdeva sempre). Martha, alla cassa, non sorrideva e non era una cosa negativa. Esprimeva ciò che stava provando in quel momento: voglia di stare a casa a dormire. Jonathan pagò il piccolo mobile e mentre stava quasi per uscire dal negozio, prese il coraggio tra le mani e fece alla buona e vecchia maniera: le chiese di uscire. Lei accettò. Domenica sera.
Ad ogni modo ciò che colpì nel profondo Jonathan fu il suo non indossare il finto sorriso di servizio, non come la cameriera che accolse Lorenz nel ristorante. La rossa lavoratrice avrebbe voluto sciogliersi davanti alla visione del robot. Aveva paura. Ma nonostante l’ansia che provava, sfoderava un non convincente sorriso tutto denti.
«Salve,» fece Jonathan «un tavolo per due.» «Certamente…Seguitemi.»
La cameriera li scortò al tavolo. Una volta che i due si accomodarono, e prese le ordinazioni (solo un tozzo di pane per il robot), corse in cucina. Ma si sentì in tutto il locale che disse a qualcuno dello staff: “Dovremmo mettere lo stesso divieto dei cani, per i robot. Ma perché ancora non l’abbiamo fatto?».
Quasi come si fossero messi d’accordo, tutti quelli nel locale a turno si girarono con la sguardo verso Lorenz, per poi ammiccare a qualcun altro nel locale per fargli segno di guardare alla matassa bianca di tecnologia nel ristorante.
«Ci guardano, Jonathan.» «È vero. Tu cerca di… comportarti da umano.» «Farò il mio possibile.»
Arrivò in tempo celere il tozzo di pane. Jonathan aspettava ancora il suo pranzo.
«Con quale tempo vuole che mangi il pane?»
Jonathan rimase un po’ sconcertato per la domanda.
«Non lo so! Tu… tu mangia e basta, ok?» «Non vuole che mangio?» «Come?» «Jonathan, se le reca disagio il fatto che io mangi non mangerò. Anzi, mi è proprio passata la voglia di mangiare.»
I robot avevano voglia di mangiare? impossibile.
«Lorenz, no. Cioè. Non mi dai fastidio…» «Non mangio, non mangio.» «Per favore.»
Sembrava una di quelle scenette di coppia tra amanti che si fanno in luogo pubblico, dove uno dei due è arrabbiato e parla a voce alta, sfiorando l’urlo, mentre l’altro cerca di calmarlo cercando di parlare a voce bassa. L’altro era Jonathan.
«Jonathan, fa niente. Capisco il disagio che provi. Mangia il mio pane.» «Non voglio il tuo pane! Mangialo!»
Con più frequenza le teste delle persone presenti al ristorante si giravano.
«Se tu mangiassi il tuo cibo, allevieresti il mio disagio.» «Sicuro?»
Jonathan non era proprio certo:
«Sicuro.»
Sembrava che nel locale ci fosse una jazz band. Il locale era riempito di un sottofondo perpetuo di musica umana. Il borbottio delle persone infatti non si fermava mai, e creava una melodia aspra e baritonale, di primo aspetto. La parola più ricorrente era: robot, robot, robot…
Finalmente arrivò il pranzo. Jonathan aveva fame. La cameriera gli passò il suo piatto tra le mani, non fece come agli altri tavoli dove appoggiava il cibo direttamente sul tavolo. Un bell’hamburger accompagnato da patatine fritte con l’aria, l’olio era diventato abbastanza prezioso. Jonathan era pronto a tuffarsi in quel mix di sapori nati dal vecchio e decrepito sogno americano. Prese il panino tra le mani, chiuse gli occhi per annullare più sensi possibili, per ampliare il più possibile il senso del gusto e per… Non aveva più il panino tra le mani. A dire il vero l’hamburger si trovava per terra, con i suoi vari strati sparpagliati.
«Vorrei parlare con il responsabile!»
Lorenz si era alzato in piedi.
«Cosa hai fatto?!» «Quella cosa che stava per mangiare era maligna!» «Che?!» «L’ho analizzato. È veleno per gli essere umani.» «Ma lo mangio tutti i giorni!» «TUTTI I GIORNI?»
Lorenz aveva alzato la voce. Anche Jonathan, insieme agli altri nel ristorante, stava provando paura.
«Sì, tutti i giorni.» «Bene! Allora lo faccio chiudere questo posto! Anche gli altri mangiano la stessa cosa! Quanta potenziale morte chiusa qui dentro! TITOLARE!!!» «Per favore, calmati!»
Si avvicinò un signore vestito bene.
«È lei il titolare?» Chiese Lorenz. «Sì, sono io.» Trasudava fermezza. «Vorrei che chiudeste questo posto.»
Jonathan assisteva in silenzio.
«E io vorrei che uscisse da qui, perché non può starci.» «Cosa vuol dire, signore?»
Il titolare era fermo al suo posto. Con gli occhi fissi dentro a quelli del robot.
«Nel senso che nessuno la vuole, non è il benvenuto, inoltre fuori dal ristorante c’è un’insegna che vieta l’ingresso a quelli come lei.»
Lorenz non ribatté. In completo silenzio uscì. Partì un grande applauso.
«E lei signore.» Il titolare ce l’aveva con Jonathan. «D-d-dica.» «Esca da qui.»
Uscì. Lorenz era fuori dal ristornate a guardare l’insegna che diceva: “Non sono ammessi cani e neanche robot”. Il “e neanche robot” era scritto con un pennarello.
«Jonathan, non lo avevo notato.» «Neanche io, Lorenz.»
Jonathan mentiva. Non era vero che non l’aveva notato. Il cartello c’era sempre stato, ma solo per vietare l’ingresso ai cani.