Lamanna & co.: in Sicilia, tra mare, granite… e delitti
Dopo il successo della serie televisiva “Màkari”, conosciamo Gaetano Savatteri, il “papà” di Saverio Lamanna.
Irriverente, ironico, disilluso, sciupafemmine: questo è il mio personale ritratto di Saverio Lamanna e, a causa di un meccanismo di identificazione di cui spesso gli autori sono vittima, allo stesso modo immagino anche Gaetano Savatteri.
Sarà davvero così?
Scopriamolo attraverso questa intervista che ho realizzato sfruttando l’occasione di parlare di “Quattro indagini a Màkari”, la raccolta dei primi episodi che vedono esordire come protagonista il giornalista disoccupato di successo Saverio Lamanna. Edito da Sellerio l’11 marzo 2021, precede di pochi giorni la serie tv andata in onda su Rai1 che lo ha finalmente consacrato presso il grande pubblico. Un successo meritatissimo, ma, visto che ci siamo, ne approfittiamo per parlare anche di altro.
Dopo la scoperta de “Il lato fragile”, il primo dei racconti di cui Saverio Lamanna è protagonista, scopriamo anche l’autore.
Ringrazio Gaetano Savatteri per aver accettato l’invito de “Il giornale delle buone notizie” e gli do il benvenuto a nome della redazione.
Nato a Milano, a dodici anni ti trasferisci nella città natale dei tuoi genitori, Racalmuto (AG). Lì, nel 1980, fondi il periodico Malgrado tutto. La rivista ha ospitato firme del calibro di Sciascia, tuo compaesano, Camilleri, Bufalino e tante altre parimenti illustri; hai conosciuto di persona miti assoluti della cultura del nostro tempo. Per me è come se tu avessi toccato con mano un testo di letteratura del ‘900 fatto di carne e ossa. Come hanno influito quegli anni e quelle frequentazioni sulla tua vita e sulla tua scelta di diventare giornalista, prima, e scrittore, anni dopo?
Sicuramente ha avuto un’influenza fondamentale perché quel tipo di conoscenza, quelle frequentazioni, hanno fatto in modo che uno credesse nella parola, nel valore, direi quasi nella necessità della parola: la parola scritta, la parola detta, la parola come testimonianza del proprio tempo, della propria realtà, della propria vita e quindi, quando da ragazzi fondammo questo piccolo giornale, “Malgrado tutto”, che pubblicammo a Racalmuto, quello era già un modo per dire “noi ci siamo”, con le nostre parole, con la nostra visione del mondo, la nostra possibilità o meglio il nostro tentativo di incidere sulle cose del nostro mondo.
Saverio Lamanna non perde occasione di sfoderare citazioni letterarie e sfoggiare la sua istruzione classica; spesso gli metti in bocca espressioni del tipo “a qualcosa il liceo classico sarà servito”. Personalmente mi affascina e diverte moltissimo la nonchalance con cui dissemini riferimenti non solo letterari, ma anche cinematografici, persino canori, spaziando dai classici latini e greci ai contemporanei, senza limiti spazio-temporali. Vuoi raccontarci il tuo percorso di studi? Che studente è stato Gaetano Savatteri?
Ho fatto il liceo classico e sono stato uno studente discontinuo, nel senso che ci sono delle materie che amavo, come Storia, Letteratura, Greco, più che Latino, ma comunque uno studente con buoni risultati. Mi ha sempre aiutato avere una buona memoria e mi aiuta tuttora nello scrivere i miei romanzi: mi ricordo con facilità pezzi di canzoni, pezzi di poesie, frasi. Questo mi ha aiutato sia durante gli studi a memorizzare velocemente informazioni e citazioni che poi mi sono rimaste in testa e ogni tanto riemergono da quegli studi, da quel passato, ma anche da nuovi studi, nuovi ascolti, nuove letture o anche riletture.
Sei nato con la penna in mano: da “Malgrado tutto” a seguire, partendo dal “Giornale di Sicilia” di Palermo fino ad arrivare al Tg5. La tua attività di scrittore ha inizio negli anni ’90, con la pubblicazione di vari saggi, per poi proseguire con romanzi di diverso genere a partire dagli anni 2000. La popolarità, che ti ha reso riconoscibile presso il grande pubblico, arriva con la serie che ha come protagonista Saverio Lamanna, accolto, soprattutto dopo la recente trasposizione televisiva, come il “post Montalbano”. Eppure la struttura delle storie e anche il linguaggio utilizzato è molto diverso rispetto a quello dei romanzi del Maestro.
Andrea Camilleri ha di certo avuto il merito di aver reso popolare, nel senso di fruibile da parte del grande pubblico, la letteratura siciliana contemporanea ma penso che abbia penalizzato tutti gli autori e le autrici che sono venuti dopo di lui, vittime di un confronto inevitabile con le sue opere e il suo stile. O sono “come Montalbano” o “non c’entrano niente con Montalbano”, e non sempre è un complimento.
Quali sono la tua opinione e la tua esperienza a riguardo?
Il mio punto di vista è diverso. Penso che Camilleri abbia aperto la strada a una scrittura di gialli siciliani, che abbia aperto quella porta attraverso cui tantissimi di noi sono passati e che ci ha dato la possibilità di concepire un giallo ambientato in Sicilia che non fosse dominato e monopolizzato dal tema della mafia. Quando nel ’94, dopo le stragi di mafia (Capaci, via D’amelio) Camilleri scrive “La forma dell’acqua”, il suo primo Montalbano, dà la possibilità a tutti gli scrittori siciliani di scrivere gialli, ma non solo gialli, anche altri tipi di genere, che fino a quel momento erano preclusi dal fatto che in Sicilia si combatteva una guerra di mafia, che ha lasciato sul campo uomini e donne dello Stato, delle istituzioni, del giornalismo, per cui non si poteva scrivere null’altro che non fosse la guerra stessa. Con “La forma dell’acqua” Camilleri ci ha spalancato una porta, che a lungo era stata chiusa, e donato la possibilità di scrivere gialli, storie d’amore, saghe familiari sulla Sicilia.
Cito da “Il lato fragile”, il primo romanzo in cui Saverio Lamanna fa capolino come protagonista di quella che poi sarà la tua fortunatissima serie.
“L’ultima volta era una sera di giugno del 1992. Un mese prima avevano ammazzato Falcone a Capaci. Nel chiostro di Casa Professa Paolo Borsellino parlò del suo amico Giovanni. Non ricordo bene le frasi, ma ho ancora presente la disperata tensione, la vertigine di stare sul ciglio del vulcano, le labbra strette di Costantino seduto alla mia sinistra e una macchia di caffè sul pantalone che cercavo di mandar via strofinandola con la saliva.
Qualcosa come rabbia, il furore di voler cambiare tutto. O forse quella sera cominciai a fuggire da Palermo, come ho fatto per il resto del mio tempo. Borsellino saltò in aria venti giorni dopo. Allora mi voltai e andai via.”
Perché Gaetano è andato via da Palermo?
Io sono andato via un po’ prima per una serie di motivi. Innanzitutto per una legittima ambizione di sperimentarmi su altri settori e poi perché in quegli anni Palermo ti calava addosso un dolore collettivo, un malessere sociale, che pensavo che in altre città fosse meno pesante, meno gravoso. Dopo aver attentati e inchieste in una stagione in cui Palermo era in prima linea, avevo paura di diventare già da giovane un reduce di una guerra che immaginavo e speravo che prima o poi sarebbe passata, la preoccupazione era però quella di rimanere reduce troppo giovane, quando ancora non si ha l’età di essere reduci. Quindi mi sono allontanato sia per sperimentare che per allontanarmi da una città che in quel momento sembrava un pozzo di dolore e di violenza.
E oggi? Vivi e lavori a Roma, lo so, ma ti chiedo: sceglieresti ancora di lasciare la Sicilia?
Ti rispondo come rispose Gesualdo Bufalino, che non si è mai mosso dalla Sicilia e da Comiso, quando gli chiesero: «Lei cosa consiglia ai giovani? Di andare via, di lasciare o a un certo punto di ritornare?» e lui rispose che bisogna fare come Ulisse, bisogna viaggiare, innamorarsi di mille donne, attraversare il Mediterraneo, pure naufragare ma sapere sempre che c’è Itaca che ti aspetta. Io ho sempre saputo che la Sicilia c’è, col suo malessere, con i suoi guasti, le sue inefficienze ma che comunque è un punto imprescindibile. La cosa bella è che quando sono venuto a lavorare a Roma all’inizio mi inviavano sempre a Palermo perché, essendo siciliano, si presupponeva che fossi competente per le cose di Sicilia, qualsiasi cosa fosse, quasi come se si trattasse di un posto in cui si parla una lingua conosciuta solo ai siciliani.
Pietro Germi sosteneva che la Sicilia è un’Italia al cubo e tu la scegli come ambientazione di tutte le vicende in cui Lamanna si trova coinvolto. Spesso, quasi sempre, è la Sicilia del sole e del mare, ma fai puntatine anche montane, come Castelbuono in “Il lusso della giovinezza”, ma sempre Sicilia è. Vuoi spiegare ai nostri lettori il significato di questa citazione, come autore e come siciliano?
Sciascia diceva che la Sicilia è una metafora nel senso che in Sicilia ci sono concentrate, in uno spazio limitato, in una terra delimitata dal mare tutte le caratteristiche dell’Italia portate al parossismo, all’eccezionalità: la violenza, il coraggio, la meschinità, l’inefficienza, la super efficienza perché ci sono anche delle isole di efficienza, la creatività l’indifferenza, cioè tutta una serie di caratteristiche nazionali e non solo che in Sicilia è come se fossero tirate all’estremo come un elastico, e quindi tutto a volte è apparentemente più visibile e più evidente. In questo senso credo che germi la definisse un’Italia al cubo, quando c’è caldo c’è veramente caldo così quando c’è freddo può fare davvero fredde, come in certe nostre zone montane.
Adoro quando entri a gamba tesa nella narrazione.
Cito da “Il lusso della giovinezza” (edito da Sellerio nel 2020): “Suleima, i personaggi dei gialli non hanno figli. A chi li affidano? Ai lettori? All’editore? Alla SIAE? […]
Non posso più uscire da questa dimensione. È meta-letteratura, capisci?” e da “Il fatto viene dopo”: “È un vero peccato perdere uno così. Ma devo decidere: o l’uomo o il personaggio. È il solito dilemma di noi autori di stampo pirandelliano.” I nostri lettori sono spesso aspiranti scrittori: come gli spiegheresti cos’è la metanarrazione e quali vantaggi offre? Tu perché la usi? Puro divertimento?
La questione è che Lamanna scrive tutto al presente, cioè sta scrivendo man mano che ciò che scrive avviene. Lui non sa prima come la storia evolverà. Lamanna è come se fosse l’autore dei miei libri e conduce il lettore all’interno del laboratorio della scrittura. Lui non può dire prima: «Questa storia è andata bene o è andata male» perché non lo sa prima, la morale emerge strada facendo, perché lui sta dentro il flusso della sua storia. In più credo che chi legge il libro partecipi a questo a gioco: Lamanna è l’autore del libro che io scrivo, e già questa è metaletteratura, in più lo sta scrivendo mentre il lettore lo sta leggendo, e infine Lamanna è perfettamente consapevole di essere uno scrittore e nello stesso tempo un personaggio, cosa maggiormente amplificata con la fiction, perché è diventato anche un personaggio televisivo, ma questo è un fenomeno che ha già sfruttato Andrea Camilleri con Montalbano.
In “La regola dello svantaggio”, Saverio dice: «Peppe, la cucina è come la letteratura: il contenuto non conta, conta come si racconta.» Mi trovi pienamente d’accordo, anzi credo che sia una delle basi di ogni corso di scrittura, ma vorrei che mi spiegassi il tuo punto di vista.
Il contenuto deve avere una sua forma e già il fatto di utilizzare il giallo è una scelta. In Sicilia diciamo: «’U cuntu ‘un cunta, cunta comu si cunta». Spesso leggiamo un libro non solo per la storia in sé ma per la lingua usata per raccontarla, per il passo usato per narrare il fatto.
Mi ricollego alla tua risposta. I tuoi sono gialli, ma quella che conta non è l’indagine, anzi il fatto su cui indagare avviene spesso a metà romanzo e anche oltre. È evidente che quello che ti interessa non è dimostrare le doti investigative del tuo protagonista quanto sviscerare la complessità dell’animo umano, osservare la causalità azione-reazione nei vari personaggi presenti sulla scena. A questo punto mi viene spontaneo chiederti: perché proprio il giallo? Non avresti potuto rappresentare la stessa umanità attraverso un altro genere letterario?
Perché il giallo, come ci ha insegnato Leonardo Sciascia, cattura il lettore e lo trascina fino alla conclusione della narrazione. Nel ’61 Sciascia scrive un romanzo famosissimo, “Il giorno della civetta”, che è un romanzo sulla mafia ed è un giallo, un giallo dal finale senza soluzione, dove il detective viene sconfitto perché non si trova la verità, ma è un giallo perché Sciascia è un appassionato del giallo. Fondamentalmente il giallo in Sicilia nasce con Sciascia, che scrive un giallo anomalo, atipico, ma Sciascia sa bene che il genere del giallo è quello che consentirà al lettore di avvicinarsi a questo enigma, che per il lettore è la mafia, con una soluzione inedita, cioè il fatto che la verità tutti la sanno ma non può essere svelata.
Una domanda d’obbligo: a quando “Màkari 2” in tv?
Le riprese di “Màkari 2” sono già iniziate e termineranno a dicembre. Il cast è stato confermato e presumibilmente andrà in onda nella primavera del 2022.
Che effetto fa vedere le proprie storie in tv? Voglio dire, la sceneggiatura spesso non è fedele all’opera originale: hai mai avuto l’impressione che quello che vedevi in TV fosse un po’ meno tuo?
Per risponderti ti faccio un paragone. Tu hai dei figli? Due, bene. Quando nascono i figli, non sono delle copie dei padri o delle madri, ma assomigliano un po’ alla madre, un po’ al padre, un po’ ai nonni, agli zii e alla fine un po’ anche a sé stessi. Nel momento in cui fai un figlio, sai bene che ne esce fuori un essere assolutamente autonomo dai suoi genitori, indipendente, con caratteristiche che in parte richiamano quelle familiari ma che per il resto si sviluppano autonomamente per tutta una serie di ragioni, educative, genetiche, e così via. Quindi il rapporto che ha chi scrive un libro con uno sceneggiato è lo stupore e la sorpresa di uno che ha un figlio e dice: «Vediamo che faccia avrà, come sarà». È chiaro che poi tutti teniamo l’aria di famiglia, tra i genitori e i figli c’è sempre una vaga somiglianza, perciò credo che l’importante sia che nella sceneggiatura venga mantenuto lo spirito dei libri, che nella fiction Màkari mi pare che ci sia, anche se poi la fiction, essendo una narrazione diversa da quella di un libro, prende anche le sue strade diverse. Poi non può riprendere il libro parola per parola, perché non si tratta di una recita scolastica, ne verrebbe fuori solo una copia, bella o brutta che sia, ma sempre una copia. Quella che ci interessa è invece l’autonomia del prodotto tratto dal libro.
Camilleri ha sempre dichiarato che il suo commissario Montalbano non assomigliava a Luca Zingaretti. Se posso permettermi di darti la mia opinione, il Saverio Lamanna che immagino io non ha la faccia di Claudio Gioè.
Questa è del resto la magia della pagina scritta: ogni lettore, guidato dalle parole dell’autore, riesce a figurarsi un mondo in cui far muovere i personaggi.
Com’è il Saverio Lamanna che Savatteri ha immaginato?
Il mio Saverio Lamanna non poteva avere la faccia di Claudio Gioè anche perché forse io non ho neanche mai immaginato esattamente la faccia di Lamanna, però credo che Claudio Gioè abbia acchiappato bene il carattere di Lamanna, un carattere scanzonato, un po’ cinico e un po’ disilluso, anche leggermente arrogantello, che però poi è capace di trovare, a contatto con Piccionello e con Suleima, momenti di tenerezza.
A questo punto non ci resta che aspettare le nuove avventure di Lamanna, Peppe Piccionello e Suleima. Grazie, Gaetano, per la tua disponibilità.
Grazie a voi per l’attenzione. Un saluto ai lettori de Il giornale delle buone notizie!
Claudia Cocuzza