Home / Arte & Cultura  / Intervista con l'Autore  / Quello che siamo noi

Quello che siamo noi

Dalla quarta di copertina

Katerina e Natalia sono sorelle, due forze della natura dallo spirito affine ma del tutto diverse l’una dall’altra. Sono nate in Siberia e sono state strappate alla madre naturale quando la minore aveva un anno e la maggiore cinque. Separate e sopravvissute alla rigidità degli istituti russi, si rincontrano anni dopo sull’aereo che le condurrà in Italia insieme ai genitori adottivi. Mentre Kate è solare e allegra e affronta la vita con slancio, Natalia ha un demone dentro e vive in funzione di un unico desiderio: tornare in Russia, per poter fare i conti con un passato costellato di violenza e abusi che solo lei sembra ricordare. Quando le due ragazze incontrano Andrej, ogni cosa cambia. Lui, che si sente un figlio di nessuno, arrivato in Italia già grande, scorgerà in Kate un riscatto e troverà in Natalia la sua stessa percezione di essere un’anima rotta. Katerina e Andrej si innamorano, illusi dalla certezza di compiere un destino già scritto. Allo stesso tempo l’amicizia tra Andrej e Natalia renderà quest’ultima più determinata nel suo proposito di tornare in Russia. Quale sarà il prezzo da pagare per concedersi di essere felici?

Chi è Alessandra Morelli? – Donna e scrittrice

Alessandra è una moglie, mamma, figlia, amica, ma, soprattutto, una sognatrice. Credo che il collante tra me e la realtà sia stato proprio il sogno di “scrivere una storia”, un richiamo irresistibile che mi ha spinto, sin da bambina, a confrontarmi con le emozioni mettendole nero su bianco. Per realizzare un romanzo, tuttavia, servivano le giuste condizioni. Ho avuto pazienza e alla fine ci sono riuscita.

Com’è nata l’idea del libro.

Anche se scrivo praticamente da quando ho memoria, le “giuste condizioni” di cui parlavo prima sono arrivate con mio figlio. Andrej, che è anche il nome del protagonista del romanzo, è stato il tornado che ha stravolto completamente la mia vita. Ho dovuto adattarmi ai suoi tempi, alla sua energia, al suo vissuto, prima di diventare a pieno titolo una mamma. Ho dovuto assecondare la profonda necessità di comprenderlo, quasi fosse un rompicapo. Scrivere mi ha aiutata a trovare le risposte alle decine e decine di domande che affollavano le mie giornate con lui e da una prima timida bozza è sbocciato “Quello che siamo noi”.

Tema centrale del tuo romanzo è senza dubbio l’abbandono. Anche se non tutti affrontiamo le problematiche di vivere un’adozione, possiamo sicuramente dire che tutti vivono la ferita dell’abbandono almeno una volta nella vita. Com’è nata in te in questa riflessione? Perché hai voluto porre il punto su questo tema?

Devo ammettere che quando ho cominciato a scrivere il romanzo non avevo la più pallida idea dei temi che stavo sfiorando, seguivo solo l’urgenza di trovare risposte. Solo con le successive revisioni del testo, mi sono resa conto della portata del messaggio che quelle mie timide righe contenevano, e di quanto la ferita da abbandono fosse un fatto mio, personale, più che di mio figlio. Per questo credo fortemente che sia una cicatrice che nascondiamo un po’ tutti, un dolore connaturato nella stessa natura umana, a prescindere dall’effettivo abbandono. Poi ciascun individuo ha la propria sensibilità ed elabora la ferita in modo diverso.

Pensi davvero che tutte le anime insolute possano alla fine trovare se stesse? Nel tuo libro è molto bella la riflessione sul kintsugi: vuoi raccontarci come affronti questa analogia?

La mia risposta è secca. Credo di no. Non tutte le anime arrivano in questa vita a riconoscere la propria natura, forse accade a quelle più “evolute” che hanno la volontà d mettersi in discussione e osservano se stesse e il mondo senza giudicarlo. Il Kintsugi, tuttavia, ci aiuta a capire quanto è bello un corpo che mostra le sue cicatrici. Senza quelle saremmo tutti uguali e racconteremmo la stessa piatta storia. Questa tecnica di restauro giapponese è una splendida similitudine delle ferite umane. Un vaso rotto può essere “aggiustato”, può tornare integro e più forte e se i punti di giuntura sono spennellati d’oro, il risultato sarà non solo un vaso diverso, ma unico e bellissimo. Le cicatrici sono una fonte di orgoglio e non più segni indelebili di cui vergognarsi, magari da nascondere. Non è un concetto meraviglioso?

Nel romanzo affronti il tema delle origini. Ci sono alcuni passaggi in cui questa ricerca assume i contorni di un’ossessione da parte di Natalia e Andrej, ed è la stessa Katerina a dircelo. Ma percorrere un viaggio a ritroso è davvero salvifico e può aiutare a guarire la frattura dell’anima?

Mentre scrivevo il romanzo ho avuto modo di documentarmi. Ho avuto modo di conoscere adozioni splendide, senza problemi, e altre che purtroppo rientrano nel novero dei così detti “fallimenti adottivi”. Ci sono ragazzi e ragazze che non hanno bisogno di andare alla ricerca delle loro origini, mentre per altri è, come ben detto, una vera ossessione. Tanti si perdono nell’illusione che la propria madre non li abbia dimenticati e magari li stia cercando, altri accumulano rabbia e vorrebbero dimostrare il proprio riscatto. Io, tuttavia, non essendo né una psicologa né una psichiatra, a questa domanda posso rispondere solo riferendomi alla mia esperienza personale. Credo che un viaggio a ritroso possa guarire alcune fratture, ma non quelle più profonde e insanabili. La differenza la fa sempre l’essere umano e l’elasticità di accettare le sue imperfezioni.

Un’altra tematica del tuo libro è l’amore, quello tra le due sorelle, quello tra Andrej e Kate, quello dei genitori adottivi per i ragazzi. L’amore, però, spesso non può tutto. Arriva fino a un certo punto. Vuoi parlarcene in riferimento al tuo romanzo?

Nel romanzo l’amore è il sentimento trascinante, ma credo di essere stata piuttosto cruda e realista. I miei personaggi sono alla disperata ricerca di attenzioni, ma sanno che l’amore non può guarire chi non vuol essere guarito. Infatti, per quanti sforzi facciano per mettere in scena una fiaba a lieto fine, dovranno mettere in discussione le loro credenze e rielaborarne di nuove.

È idea molto diffusa che scrivere sia terapeutico. Cosa rappresenta per te la scrittura? E la scrittura di questo libro? E ora che è pubblicato?

Ho già anticipato che scrivere è stata un’esigenza. In questo romanzo mi sono messa a nudo, ho dovuto accettare tutte le sfaccettature di me come essere umano fallibile e imperfetto, e devo ammettere che sì, almeno nel mio caso, scrivere è stato un gande aiuto a comprendere meglio le mie ferite. Con la pubblicazione è accaduta una cosa straordinaria, che non mi aspettavo e forse speravo. È stato come chiudere un capitolo della vita, prendere una boccata d’aria ed essere pronta a iniziarne un altro. Paradossalmente, mi sento più forte.

Sappiamo che molto di questo libro è tratto dalla tua esperienza personale di adozione, non è un segreto, è d’altronde risaputo che tutte le storie prendono vita dalla mente e quindi dall’esperienza degli scrittori. Nel tuo caso però c’è un elemento in più: nel romanzo c’è un personaggio che è l’emblema della speranza e del riscatto e che si chiama Andrej, come tuo figlio. È una dedica indiretta?

Naturalmente, sì e non voglio dire di più. Chi arriverà alla fine del romanzo troverà nei ringraziamenti un pensiero speciale per lui, spero che un giorno, quando sarà grande, potrà apprezzarlo.

Progetti futuri?

Ho un paio di idee che spero di realizzare entro il prossimo anno, qualcosa che ha a che fare con la magia e un pizzico di mistero. Spero di riuscire a realizzarle.

L’autrice

Alessandra Morelli vive a Terni insieme al marito, il figlio, tre cani e sei gatti. Avvocato in pausa di riflessione, appassionata lettrice, scrittrice per diletto, nel 2011 è diventata mamma di un bambino arrivato dalla Russia siberiana di nome Andrej.

Gestisce la pagina Letture Maldestre attiva su facebook e Instagram ed è co-fondatrice del Club del libro – Via col libro, in cui condivide le letture che ama.

Quello che siamo noi” è il suo primo romanzo.

Intervista di M. Elisa Aloisi