I pilastri della libertà

Vorrei riprendere le fila del discorso sul software libero introducendo quelli che io chiamo “i pilastri della libertà” del software.

Ma perché dovrebbe interessarci questa problematica?
L’informatica è appannaggio dei tecnici, a noi basta solo usarla, poi, che un programma sia libero o meno non cambia molto, basta che funzioni.

E qui mi cadono le braccia: tristissime visioni apocalittiche di civiltà distopiche del futuro si palesano nella mia mente.
Sì, lo ammetto, a volte sembra di essere dentro a Matrix e il paragone mi pare dannatamente azzeccato.

Viviamo in un sogno cibernetico? Forse, a volte mi viene il sospetto, non solo…
La famosa pillola rossa…

Se potessi vorrei davvero proporvi di assumere la famosa pillola della consapevolezza, del risveglio, pillola che ahimè temo di non possedere.

Il software

Partiamo quindi dalle basi.

Prima di tutto una domanda: Siamo sicuri di sapere realmente cosa intendiamo per software?

Nella nostra quotidiana distrazione spesso ci dimentichiamo il significato profondo delle parole che utilizziamo, in particolare se queste sono utilizzate per caratterizzare oggetti complessi come appunto gli elaboratori elettronici, noti anche come Computer.

Software deriva dall’inglese, è una parola inglese, esattamente come il suo alter ego, hardware, che significa ferramenta, ferraglia.

Imparai entrambe queste parole nel 1981 quando, per la prima volta mi capitò per le mani l’Annuario di Micro e Personal Computer.

La copertina della prima rivista di informatica che lessi in vita mia


Appresi che in ogni elaboratore elettronico esistevano due entità, due cose misteriose, l’hardware ed il software appunto, entità che caratterizzavano il funzionamento del misterioso cervellone elettronico, locuzione vietatissima per chi, come me, anni dopo frequentò il corso di “Calcolatori Elettronici” del mitico prof. De Poli.

Da una parte c’era l’hardware con viti, bulloni, ingranaggi, fili, interruttori…

E qui la memoria va al padre di Richard Cunningham, della bellissima serie televisiva Happy Days, che aveva proprio un negozio di hardware, ferramenta…
Quindi dentro un calcolatore ci stava della ferramenta, il che mi era comprensibile, ma il software dunque cos’era?

Capii solo in seguito che il software era la ricetta magica che ogni elaboratore utilizzava per manifestare la sua “intelligenza”, per svolgere i suoi calcoli, per interpretare e rispondere correttamente ai quesiti posti.

La cosa mi affascinò talmente che divenne la base su cui costruii il sogno della mia vita: realizzare del software per emulare dei comportamenti intelligenti, di più, intuii che conoscere l’alchimia del software poteva essere (forse) la porta per comprendere l’essenza dell’intelligenza e dell’anima umana.
Non ero molto distante dall’intuizione dei principi base dell’intelligenza artificiale, ma questo discorso ci porterebbe molto distanti.

Oltre l’informatica

Così fu che capii che l’essenza della parola software andava ben oltre il semplice concetto di programma o procedura da eseguire meccanicamente.

Anche al giorno d’oggi nel software trovano posto concetti, idee, numeri, dati, rappresentazioni, film, suoni, immagini… tutto!
Il concetto di software travalica i confini stessi dell’informatica, ammesso che esistano.

Un semplice esempio? Il libro.

Il libro è composto di pagine di carta, cartone, e inchiostro: questo è l’hardware, il supporto.
Quello che c’è scritto nel libro, l’idea, il racconto, è il software.

Quando la nostra mente legge un libro realizza, tramite le parole del testo che interpreta, il software che è l’essenza del libro. Non a caso ultimamente i libri si sono smaterializzati divenendo e-book, i famosi libri elettronici.

Idee, concetti, pensieri , sogni… la questione riguarda tutto il nostro mondo, dobbiamo essere consapevoli almeno di questo: il software ci riguarda molto da vicino perché è la realizzazione delle idee, in qualunque forma esse siano codificate.

Ma c’è un grosso problema

Chi scrive libri, chi realizza software per computer, giustamente, vuole essere ripagato per il suo lavoro, o almeno desidera che il suo contributo venga in qualche modo riconosciuto.

Purtroppo il problema è stato risolto introducendo il concetto di tutela di proprietà intellettuale, di brevetto.
Una normativa molto articolata è stata sviluppata proprio per tutelare l’ideatore dell’opera dalla copia, dal plagio, dal furto .

Ho utilizzato l’avverbio “purtroppo” perché secondo me, ma non sono il solo, l’approccio di chiusura e di tutela imposto dai copyright agisce in modo discriminatorio, creando abusi che, nella storia dell’informatica, si contano a migliaia.

Talvolta, per assurdo, queste tutele si ritorcono persino contro gli interessi degli stessi ideatori, impedendo in ogni caso la diffusione della conoscenza, la contaminazione, il progresso delle idee, concentrando nelle mani di pochi il controllo della cosa più importante che esista: lo sviluppo e l’espressione delle conoscenze.

Per questo motivo, già dal 1999 aderii al movimento del software libero, installando Linux su tutti i miei PC, abbracciando completamente la filosofia dell’open source, filosofia che si basa sulle quattro libertà essenziali, proposte per la prima volta da Richard Stallman, già citato nel mio post precedente.

Le quattro libertà fondamentali

Restando in ambito informatico, ma la cosa si estende a qualunque altro ambito con minimi adattamenti, possiamo dire che che un software si può considerare libero se gli utenti del programma godono delle seguenti quattro libertà fondamentali:

1. Libertà di eseguire il programma come si desidera, per qualsiasi scopo (livello 0)
2. Libertà di studiare come funziona il programma e di modificarlo in modo da adattarlo alle proprie necessità (livello 1), l'accesso esplicito al codice sorgente ne è pertanto un prerequisito.
3. Libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare gli altri (livello 2). (diffusione delle idee)
4. Libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti apportati, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio (livello 3), ove la possibilità di modificare il codice sorgente è un prerequisito imprescindibile.

Un programma è software libero se l’utente ha tutte queste quattro libertà.

Altrimenti diciamo che il programma non è libero.

Attenzione: “Software libero” non vuol dire “non commerciale”. Un programma libero può essere disponibile per uso commerciale, sviluppo commerciale e distribuzione commerciale. Personalmente ho tratto profitto dalla vendita e dallo sviluppo di software libero.
Si può ottenere software libero pagandolo o non pagandolo, ma deve sempre rimanere la libertà di copiare e modificare il software, persino di rivenderne delle copie.

Ora domandiamoci: di tutti i programmi che utilizziamo, quanti sono effettivamente liberi? Possiamo sapere come sono fatti? Possiamo conoscere come elaborano i nostri dati personali? Possiamo modificarli?

Non si tratta quindi di rubare in modo illecito il software, ma di pretendere che il nostro ecosistema, le nostre libertà, la nostra stessa privacy, possano essere tutelate mediante la conoscenza dei processi automatizzati che utilizziamo quotidianamente.
Nel mio caso sono sicuro che posso conoscere ogni componente del sistema software Linux che utilizzo, posso persino modificarlo e venderlo, a patto che anche il mio cliente sia libero di fare altrettanto.

Su quelli che chiamo “I pilastri della libertà” possiamo realmente costruire le fondamenta del nostro benessere nella civiltà del futuro, in qualsiasi ambito, vaccini antivirali compresi.

A proposito: anche il codice genetico di un virus è software.

Ecco perché, e qui si tocca un tasto dolente, dovremmo pretendere che anche il vaccino anti Covid sia OPEN SOURCE.

SVEGLIAMOCI !

HGD