Forza, confessatelo: anche voi avete avuto un piccolo brivido di soddisfazione quando Marie Kondo ha confessato che la sua casa è un casino, con tre figli piccoli!
La magica regina del riordino è crollata sotto la furia incontenibile delle sue creature.
D’altronde, se a una donna piace partorire (e ci sono anche quelle, come ci sono donne che non vogliono figli, quindi #stacce come dice Zerocalcare), non è che possa pretendere di avere una casa perfetta, anche perché il metodo Montessori in Giappone viene applicato solo da una certa età (di certo precoce) in su, prima i bambini fanno quel cazzo che gli pare.
Poi lei si è trasferita in America e là non ho nemmeno idea di come tengano i figli, mi danno un po’ l’idea di essere lasciati allo stato brado, ma forse il mio è solo pregiudizio. – Peccato per il marito, che ci fa la figura di fuco senza arte né parte, ma sto divagando. – Oggi volevo parlarvi degli oggetti.
Nella mia vita, gli oggetti sono sempre stati rigorosamente oggetti: devono servire ME, non il contrario.
Non sono maniaca della casa splendente e della macchina lavata, se non quando mi servono.
L’attaccamento all’oggetto mi ha sempre dato l’impressione di attaccamento morboso alla vita, cosa che io non ho mai avuto.
Dopo la fine del mio primo matrimonio, complice un trasloco e un secondo marito che è sempre stato capace di racchiudere la sua vita in un borsone, mi sono data da fare per levarmi alla maniera buddista o francescana quel vizio di attaccamento agli oggetti che ritengo così malsano. Quindi ho regalato a un’amica e a varie biblioteche del padovano la mia collezione di migliaia di libri; a un’altra amica, con una vena collezionistica molto raffinata, ho dato tutte le mie tazze da caffelatte, e via via tutti gli oggetti che mi ricordavano una vita precedente, al punto da liberarmi della vecchia casa per ripartire con una nuova.
L’abito da sposa di Gattinoni del mio primo matrimonio è finito a un’asta benefica di non mi ricordo più quale delle alluvioni che ha devastato l’Italia, per dire.
Bene così.
Mi si perdoni se ho scordato di nominare qualcuno che possiede ancora i miei oggetti, ma avevo preso dal mio primo marito l’amore per l’accumulo compulsivo, al punto tale da avere talmente tanta roba che, grazie al cielo, adesso ho scordato in giro per il mondo, finita tra le mani della gente per scopi benefici o in mano ad amici.
Amo il potere della ripartenza, mi dà l’idea di vivere sette vite come i gatti. Idea effimera ma efficace per non lasciarmi trascinare sul fondo dai ricordi.
Ci sono tuttavia alcuni oggetti che custodisco per me, fino a quando il mio coinquilino passa e me li butta via per una botta mentale di decluttering che ogni tanto lo porta ad avere il potere di un Dyson (dura poco, ma tant’è).
C’è ad esempio una polverosa bottiglia di vetro blu sui piani alti della cucina, ricordo di un viaggio alcolico a Lanzarote.
Oppure un tappo di spumante dell’incontro con un rugbista troppo amante delle bollicine. Questa è morta tra le mani del mio coinquilino, gettata nell’umido. Mannaggia a lui!
A volte qualche amica mi lascia cose più profonde, come la lettera motivazionale che porto sempre sul fondo della borsa e che non dimentico di trasferire alla borsa nuova.
Un ricordo delizioso che sta ingiallendo vittima del tempo.
In generale però gli oggetti mi mettono ancora tristezza: penso sempre a quel poveretto o a quella poveretta che dovranno sbaraccare casa mia quando morirò; non voglio lasciare pesi inutili sulle spalle delle persone.
Nella tradizione della famiglia di mio padre, contadini della Brianza, quando qualcuno moriva, si bruciava tutto, a meno che non fossero pezzi pregiati come i mobili che mio nonno costruiva e intagliava con le sue mani. Tutto il resto veniva eliminato con un falò purificatore, per evitare che lo spirito del morto tornasse dai vivi a causa del suo attaccamento agli oggetti terreni. Curioso, no?
Quindi sto puntando a una casa zen alla maniera del mio amico Mauro che, da buon collezionista, limita le cose effimere a ciò che veramente trova utile, senza accumulo compulsivo, ma tiene come ricordo dell’era che fu una pianola Bontempi bianca e arancione che anch’io da piccola suonavo.
No, io non sarei mai come lui, seppur mi chieda quanti soldi avrei potuto farci se avessi conservato certi oggetti che oggi vengono definiti vintage.
E voi? Che relazione avete con la chincaglieria che vi circonda?