Cari lettori,
sapete che ogni settimana faccio un po’ di qua (cioè sto nel mio “angolo del farmacista”) e un po’ di là (rubrica “Libri”), così oggi mi sono detta: perché non stare con un piede in due staffe?
Questa settimana vi parlo di Medicina Narrativa.
Non l’ho inventata io, per risparmiare su un articolo; esiste davvero ed è una cosa interessantissima.
Con “medicina narrativa” si intende il racconto di una personale esperienza ˗ medica o assistenziale ˗ da parte di pazienti, parenti e amici, ma anche da parte di medici.
A cosa serve?
Si tratta essenzialmente di compartecipazione: attraverso la narrazione della propria esperienza, il malato ˗o chi lo assiste ˗ si confronta con altri che hanno vissuto o continuano a vivere la stessa situazione e che quindi ne comprendono stato d’animo, ansia, stanchezza e paure.
La medicina narrativa, quindi, ha lo scopo di alleviare la sofferenza del malato perché gli permette di creare un rapporto di empatia con altre persone che hanno vissuto la stessa condizione o che vogliono co-partecipare e dargli conforto.
Funziona?
Sì, funziona, e sapete perché? Perché con le malattie croniche il paziente deve imparare a convivere e spesso a queste si associano comorbilità di natura neuropsichica (ansia, stress, attacchi di panico, depressione) nate e/o aggravate dalla preoccupazione/convinzione che gli altri, cioè le persone che ci stanno attorno e non sono malate, non ci capiscano e addirittura ci avvertano come un peso.
La narrazione ci permette di capire come la persona malata affronta la quotidianità, oltre a farci intendere in che modo si rapporta con medici e personale assistente; d’altro canto, medici e assistenti elaborano narrazioni sulle esperienze con i singoli pazienti che non sono traducibili in una cartella clinica, poiché questa registra sinteticamente e quantitativamente segni e sintomi del corpo, risultando alla fine sterile e monca. La medicina narrativa, dunque, permette una comprensione profonda che non può essere raggiunta solo con le misure quantitative; è anzi proprio attraverso la narrazione che i numeri possono essere interpretati.
Questo discorso vale per tutti i malati, ma oggi facciamo un esempio concreto di medicina narrativa applicata a una patologia specifica: l’emicrania.
L’emicrania, sì; non vi sembra un gran problema?
Vi sbagliate, perché in base al parametro YLDs (Years Lived with Disability, ossia il tempo vissuto non in salute per ogni anno di vita) si colloca al secondo posto al mondo tra le dieci cause principali di disabilità; in Italia al terzo, nella fascia di età tra i 14 e i 49 anni, e al primo tra le malattie neurologiche al di sotto dei 50 anni, senza considerare le patologie psichiche associate a cui ho già accennato.
L’emicrania è una patologia, il problema è che è difficile da diagnosticare e ancor di più da curare efficacemente: innanzitutto, viene spesso scambiata per uno solo dei suoi sintomi (mal di testa) quando in realtà i sintomi sono diversi (nausea, vomito, foto e fonofobia, astenia, difficoltà di concentrazione), inoltre non esistono dei marker diagnostici univoci che ne permettono l’identificazione. Questo gioca ulteriormente a sfavore dei malati e li fa sentire ancora più soli e incompresi.
L’emicrania diventa poi una patologia cronica, e non più episodica, se gli attacchi passano da quattro a quindici o più al mese.
È senz’altro una patologia di genere, perché nella donna ha un’incidenza di tre-quattro volte superiore rispetto al sesso maschile: diventa quindi un’ulteriore causa di stress perché interferisce con la vita quotidiana anche a lungo termine, in eventi come la programmazione di una gravidanza, aspetti di fertilità, relazioni affettive con figli e partner.
“Dentro l’emicrania”, la raccolta di esperienze legate appunto alla convivenza con l’emicrania da parte di pazienti, familiari e medici, nasce grazie al progetto DRONE ˗ Dentro la Ricerca_ Osservatorio sulle Narrazioni di Emicrania ˗, condotto dall’Area Sanità e Salute di Fondazione ISTUD in collaborazione con Novartis ed è la prima ricerca di medicina narrativa realizzata a livello nazionale.
Tra dicembre 2019 e luglio 2020 hanno partecipato al progetto 13 centri dedicati alla cura delle cefalee e sono state complessivamente raccolte 178 narrazioni, suddivise tra storie di persone con emicrania (107), di loro familiari (26) e racconti scritti dai neurologi (45).
Il lavoro è stato poi pubblicato su Neurological Sciences.
È interessante soffermarsi sulle metafore attraverso le quali i pazienti descrivono l’emicrania: come buio o nebbia (20%), ovvero situazioni in cui è difficile districarsi, che impediscono l’orientamento, che creano ansia e confusione.
Per il 31% dei partecipanti allo studio, l’attacco di emicrania richiama un episodio violento, come può essere un’esplosione, uno tsunami, o addirittura una figura malvagia, un mostro: la patologia diventa qualcosa che attacca o che è sempre in agguato.
Il terzo gruppo (49%) descrive il dolore fisico come l’azione del fabbro che usa un martello o di una lama che entra nella tempia o ancora come pulsazione: sono le sensazioni associate all’attacco
dell’emicrania, e le metafore utilizzate ci danno un’idea dell’intensità del dolore.
Ed è proprio questo dolore che influisce negativamente sia sulle attività (90%) che sulle relazioni (65%) di chi ne soffre.
L’assenza dal lavoro è stimata in 56 giorni l’anno, ma molti dei pazienti dichiarano che, sebbene la maggior parte delle attività sociali siano rallentate o del tutto accantonate, cercano di non perdere giorni di lavoro imbottendosi di antidolorifici. Il tentativo di prevenire l’attacco di emicrania fa sì che il paziente eviti situazioni “a rischio” (luoghi affollati o rumorosi) con un impatto negativo sulla qualità della sua vita.
In conclusione, le narrazioni mettono a fuoco l’emicrania come una vera e propria patologia disabilitante e hanno permesso di riconnettere all’esperienza clinica gli aspetti personali, emotivi, psicologici e sociali dell’emicrania.
Inoltre, questo studio propone la medicina narrativa come uno strumento utilissimo da affiancare alla medicina tradizionale, in quanto ha dimostrato che il paziente, seguito a 360° ˗ come da principio della medicina olistica ˗ acquisisce maggiore fiducia e risponde meglio alle terapie messe in atto.
La personalizzazione e l’umanizzazione del percorso di cura sono tra le sfide da affrontare nel futuro più prossimo.
Adesso vado in ferie anche io, quindi la prossima settimana non mi troverete nel mio angolino.
Nel frattempo, fate i bravi e #prendetevicuradivoi
Dr.ssa Claudia Cocuzza