Viviamo negli attimi. Gli attimi formano i minuti, i minuti le ore e così via; come le tessere di un puzzle, i momenti si incastrano e collaborano per formare un’immagine più grande: la vita.
Fino a questo punto la questione è semplice e lineare.
I pezzi del puzzle sono di un numero preciso, così come gli attimi. Tassello dopo tassello capiamo a cosa stiamo lavorando, fino a che… ci accorgiamo che abbiamo perso un pezzo per completare l’opera! Ma anche in questo caso, l’analogia con l’esistenza umana continua ad essere presente.
Lo scrittore Georges Perec nella sua opera più conosciuta “La Vita. Istruzioni per l’uso” mette in mostra le vite di varie persone, che hanno in comune il posto dove vivono. Sono di fatto tutti coinquilini e Perec decide di scrivere un capitolo a stanza per parlare della vita di ogni singola persona. Un capitolo dedicato alla prima stanza a sinistra del corridoio dove abita persona X, un altro capitolo per la cantina e così via; seguendo un intricato ma matematico schema perfetto. Anche i capitoli sono “perfetti”: Perec si è dato delle regole di scrittura per comporre in modo ottimale i vari capitoli dell’opera.
La tematica del puzzle è centrale in tutto il romanzo e l’autore, cercando di descrivere la vita dei singoli condomini, cerca di parlare del funzionamento generale della vita. Il particolare che fa parte dell’universale. Ma ecco il colpo di scena! Tra tutti i calcoli perfetti di Perec ecco che i capitoli del libro risultano essere novantanove, mentre le stanze totali dell’edificio sono… cento. Perec ci parla, non dicendoci nulla, del fatidico “pezzo perduto”. Anche studiando la propria vita a tavolino, cercando di ottenere tutte le soddisfazioni possibili… ci mancherà sempre un pezzo. A fine lettura si arriverà arrabbiati a sapere che c’è una stanza alla quale noi non abbiamo accesso. Ci fa rabbia perché anche nella nostra vita sappiamo che ci sarà una stanza per la quale noi non possiamo avere un chiave. Ma non è forse questo che ci permette di voler continuare a vivere?
Il filosofo ateniese Socrate diceva che noi uomini siamo mancanti di qualcosa, e siamo alla perenne ricerca di questa mancanza spinti dal nostro eros. Se noi non avessimo questa spinta, nata dal voler essere il più completi possibile, vivremmo nella “chiacchiera”, nella vita dormiente. Per questo è importante riconoscere il nostro puzzle e i nostri pezzi mancanti. È grazie a questa scoperta che riusciamo ad aggiungere sempre più tasselli alla nostra immagine, ed è grazie a questi che riusciamo ad essere persone e ad essere ricordati.
A questo punto bisogna citare il film “Quarto Potere” del visionario Orson Welles. Tutta la pellicola gira intorno allo scoprire il perché, sul punto di morte, l’ultima parola del milionario Charlie Kane sia stata: Rosebud. La ricerca del significato della parola alla fine non da frutti, ma anche se li avesse dati non avrebbe risolto nulla. “Non credo ci sia una parola che possa spiegare la vita di un uomo”, ci dicono tra le ultime battute.
Il film cerca, tassello per tassello, di ricreare tutta la vita del deceduto, tirando in ballo proprio l’analogia del puzzle, per poi riuscire ad arrivare al capire cosa volesse dire Rosebud. Ma anche se lo avessero capito, non sarebbe servito a niente.
Cercare di scoprire il tassello mancante è inutile. Per due motivi: uno, non si può scoprire; è qualcosa talmente dentro e, allo stesso tempo, fuori di noi che anche se volessimo provare a fare delle congetture sarebbero altamente false ed anche inutili, perché anche se riuscissimo a trovare qualcosa che giustificasse la nostra mancanza, torneremmo prima o poi in una stato di angoscia e privazione (di fatto in “Quarto Potere” alla fine noi spettatori scopriamo cosa volesse dire la parola Rosebud, ma allo stesso tempo il significato è così intrinsecamente legato all’esistenza di Charlie Kane che noi non riusciamo a percepire cosa volesse davvero dire per lui questa parola), e il secondo motivo….
Matteo Abozzi