Ti ho odiato di profondo amore, caro Carlos Ruiz Zafón
Questa settimana la nostra rubrica ospita la recensione di Marina di Carlos Ruiz Zafon scritta da Antonella LaBag Bagorda.
Quella con “Marina” è stata un’esperienza quasi mistica, sicuramente unica per i miei 32 anni suonati di vita, e il bisogno di condividerla è tanto forte perché in questo libro ho trovato un tutto mai incontrato prima.
Avete presente quei lettori che nel dover affrontare un determinato libro esordiscono con “non è il mio genere ma…”? Ecco, io li detesto dal profondo dell’anima. E dunque in questo momento mi sto detestando dal profondo perché, effettivamente, questo non è il mio genere ma…
Anzi, dirò di più, a me questo genere fa proprio schifo, e mi sia consentito il termine. Fantasy, gotico, horror, qualunque cosa sia, ecco, mi fa schifo.
In vita mia ho letto molto poco di appartenente a questo filone di romanzi e mai per decisione spontanea, ma sempre per puro caso o per costrizione. E così è stato anche per questo libro, me lo sono ritrovato negli scatoloni che una signora mi ha regalato tempo fa, avanzi di libreria di un figlio partito per non tornare. Poi muore Zafón e io mi dico: “Non ho mai letto niente di Zafón, però guarda, ho un suo libro proprio qui”.
Ed è stata la fine!
Io di questo libro ho creduto a tutto. Fin dalla prima pagina.
Non ho mai avuto dubbi sul fatto che Eva e Kolvenik siano esistiti davvero. E ho adorato la parte in cui Oscar si è messo nei panni di Kolvenik e lo ha capito, lo ha compreso e lo ha quasi giustificato; e l’ho capito, compreso e quasi giustificato anch’io.
Sono entrata nella casa di Marina e Germàn e ho vissuto lì dentro per davvero, alla sola luce delle candele, e ho sentito la puzza di malattia. Ho visto Kafka e l’ho sentito miagolare e strusciarsi tra i miei piedi; ho sentito presenze alle mie spalle e ho avvertito tanfo di carne putrida.
E tutto questo mi ha portato a quell’epilogo, che poi io odio gli epiloghi, e laddove mi sarei aspettata un’ultima scintilla di follia fantastica e fantasiosa, ci ho trovato quel dramma realissimo e umanissimo di cui Marina aveva parlato: il rischio di ricordare solo quello che non è mai accaduto.
E un po’ ho titubato. Ma non per la storia. Per la mia vita.
Questo libro è un inno alla morte. E la sua lettura me l’ha scaraventata addosso, la morte, più potente di come l’abbia mai potuta affrontare e interiorizzare.
Una Barcellona dalle mille facce, e personaggi innocentemente oscuri, e quella promessa mantenuta da Oscar di finire la storia, e quel ritratto di Marina che non si sa che fine abbia fatto, e poi amore, paura, solitudine, vita, morte…
Una cosa è certa, è come se questa fosse stata la mia prima volta. Ho capito, di nuovo e meglio, l’importanza delle storie, delle parole e del ruolo di chi racconta.
Ti ho odiato di profondo amore, caro Carlos Ruiz Zafón!
Alla prossima storia.
Antonella LaBag Bagorda