Oggi vorrei parlarvi di un disturbo la cui incidenza è in costante ascesa, basti pensare che nell’ultimo decennio si è registrato un aumento di casi di circa il 20 per cento, con un rapporto donna/uomo di circa 2/1.
La depressione è una condizione patologica che per troppo tempo non è stata riconosciuta come tale e che purtroppo, ancora oggi, è difficile da diagnosticare e trattare correttamente.
La ritroviamo infatti descritta e classificata come disturbo dell’umore solo nell’edizione del 1980 del manuale diagnostico edito dall’American Psychiatric Association.
I sintomi della depressione ‒e in questa sede tratteremo della forma più diffusa, ovvero la depressione maggiore‒ sono di natura sia emotiva che cognitiva.
Dal punto di vista emotivo, i sintomi più comuni sono profonda tristezza, calo della spinta vitale, perdita di interesse verso le normali attività, pensieri negativi e pessimistici.
A questo punto occorre fare una precisazione: la tristezza che caratterizza il soggetto malato di depressione non è motivata o legata a contingenze in grado di giustificarla, cioè il sentimento di tristezza occasionale non deve farci temere di stare per ammalarci di depressione. La tristezza che accompagna il paziente depresso è quotidiana e non trova miglioramento o sollievo neanche con l’evidenza di un eventuale episodio positivo: il malato di depressione non è in grado di percepire la positività di una situazione e di gioirne. Nelle forme più gravi, tale sentimenti di negatività possono condurre a propulsioni suicidarie: solo in Italia, si stima che quattromila morti l’anno siano riconducibili a questo.
Dal punto di vista cognitivo, il paziente depresso manifesta deficit delle capacità di attenzione, concentrazione e memoria fino a osservare, negli stadi più avanzati della malattia, un rallentamento del flusso del pensiero (bradipsichismo).
Un terzo aspetto sotto il quale la depressione maggiore può mostrarsi è la somatizzazione: il soggetto può arrivare a negare il proprio stato depressivo ma lamentare disturbi fisici diffusi, che possono andare dai problemi gastro-intestinali alla stanchezza cronica a dolori muscolo-scheletrici di difficile localizzazione, fino a sviluppare alterazioni del ritmo sonno-veglia e condizioni di ipocondria patologica.
Come per tutte le malattie, pure per la depressione maggiore sono rintracciabili cause e fattori predisponenti, anche se in questo caso sono così svariate che si preferisce parlare di causa multifattoriale.
La componente genetica è presente, anche se meno rilevante rispetto ad altre forme di malattia psichiatrica; più rappresentati sono invece i fattori sociali, ambientali e l’incidenza delle esperienze di vita: è facile quindi comprendere la maggiore probabilità di sviluppare depressione maggiore in soggetti che appartengono a contesti socio-economici svantaggiati o con basso grado di scolarizzazione o in quelle persone che hanno subito gravi perdite o situazioni avvertite come ingiuste e non riescono a elaborarle ‒lutti, divorzi o separazioni, mobbing lavorativo o sociale, bullismo.‒
Un aspetto relativamente nuovo e che oggi si sta studiando è legato alla correlazione tra malattia depressiva e stato infiammatorio.
Già a partire dagli anni ’90 si è notato che l’insorgenza della condizione patologica di depressione in pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche, anche su base auto-immune ‒come il lupus eritematoso o l’artrite reumatoide‒ è in grado di peggiorarne la sintomatologia, così come la presenza di un aumentato numero di fattori proinfiammatori può aggravare sintomi depressivi come i disturbi del sonno e la difficoltà di concentrazione.
Perché questa scoperta è importante?
Perché la depressione, oltre a essere difficile da riconoscere e diagnosticare, è tra le patologie con più alta incidenza di recidive, tendenza alla cronicizzazione e difficoltà nell’individuazione di una terapia risolutiva, fermo restando che all’approccio farmacologico nella maggior parte dei casi andrebbe affiancato un supporto psicoterapeutico.
L’evidenza di una relazione diretta tra stato infiammatorio –cerebrale o non‒ e depressione maggiore ha dato il via a numerosi studi, tuttora in corso, che prevedono di affiancare alla terapia farmacologia classica un farmaco aniinfiammatorio.
I risultati fanno ben sperare, anche se gli studi condotti finora non sono stati protratti per un tempo sufficiente da valutarne il rapporto rischio/beneficio a lungo termine.
Tuttavia questo ci porta a un’altra considerazione.
Siccome conosciamo l’eziologia dello stato infiammatorio dell’organismo e sappiamo che questo è strettamente correlato a uno stato di malessere del sistema immunitario e peggiora in concomitanza di situazioni di stress prolungato, è chiaro che non mi resta che continuare a ribadire quello che, per un motivo o per l’altro, vi dico quasi ogni settimana: prendiamoci cura di noi stessi, pratichiamo attività che ci fanno stare bene, frequentiamo persone che hanno influenza positiva sulla nostra vita, usiamo il cibo come una medicina.
Sono ripetitiva?
Sarà, ma il contatto con i malati e le malattie mi dimostrano giorno dopo giorno che è così.
#scegliamolagentilezza
Alla prossima settimana,
dr.ssa Claudia Cocuzza