Un anziano impiegato statale, prossimo alla pensione, vive in affitto nel suo monolocale da trentaquattro anni, solitario, semplice. Un arredo alquanto spartano, nessun quadro alle pareti, nessuna pianta sul davanzale nessuna foto. Solo una lavatrice, la cucina, un tavolo da due sedie, un divano due posti, un telefono, una vecchia radio e un moderno televisore, unico oggetto vivace e dinamico nell’ambiente.
Da circa dieci anni non ha più nessuno al mondo. Aveva dedicato il tempo libero ad accudire i suoi genitori, a curarli a provvedere ai loro bisogni, fino alla morte del padre, avvenuta dodici anni fa, poi della madre due anni dopo. Non si era mai sposato e quando finalmente poteva dedicare il tempo a se stesso era già abbastanza avanti con gli anni e stanco, troppo solitario per avere il giusto stimolo a qualunque iniziativa. Non andava al cinema, né a teatro né a un concerto. Non andava al bar a vedere le partite o a cogliere occasione di socializzare con i suoi coetanei: era diventato oramai troppo orso e scorbutico.
Con la morte dei suoi genitori aveva ereditato una casetta in campagna nell’entroterra abruzzese, ma non ci andava quasi mai, se non per raccogliere le bollette da pagare e fare un pò di pulizie nonché verificarne lo stato d’integrità. Ha da poco comprato una bell’automobile fuoristrada, dando fondo ai suoi risparmi, ma, dopo una settimana di entusiasmo, la utilizza per recarsi al vicino posto di lavoro, dove, da più di trent’anni espleta le stesse mansioni. Unico suo svago é proprio il lavoro: l’accesso a un ambiente umano, popolato e promiscuo, lo scambio e l’interazione con i colleghi, il sorriso, la battuta oltre allo svolgimento delle pratiche e la risoluzione dei problemi intrinseci al lavoro stesso. L’impiegato protagonista si chiama Umberto, ma tutti lo chiamano Berto, scherzano con lui lo prendono un po’ in giro, in ogni occasione, ma lui non ricambia mai l’ironia.
Solitamente, quando gli si avvicinava una donna alla macchinetta del caffè e lui faceva il galante gentile, i colleghi gli cantavano sottovoce “E Berto filava … filava con Chiara, filava con Gina …”. Ma lui non si scomponeva. Spegneva il fervore dei colleghi maliziosi con un mezzo sorriso e scuotendo la testa, continuando con la sua irreprensibile e composta galanteria.
Non che fosse indifferente al mondo che lo circondava, non che non avesse desideri o che non osasse fantasie, ma non andava più lontano del semplice pensiero, non azzardava mai, rimaneva prigioniero del suo mondo forte della sua educazione e vestito di un’irreprensibile compostezza. Un vero cosiddetto “signore”.
Ma tale compostezza ed educazione comincia a calzargli sempre più stretta, come la sua solitudine, sempre più opprimente. Dalla finestra di casa un bellissimo ripetitivo panorama, mutante soltanto nei colori del giorno e della sera, ma sempre lo stesso, odioso, inanimato paesaggio. Fissando quel paesaggio la sua mente divaga, gli si figurano immagini, sembianze quasi reali, rivede se stesso giovane e saltellante come un grillo, ma dura poco. E’ ora di cenare o di andare al lavoro. Il suo lavoro non é granché impegnativo, lo svolge oramai con consumata abilità e velocità: in due ore è in grado di svolgere l’attività che solitamente si consuma in otto. E il resto del tempo? osserva i colleghi, il suo capo, i clienti che entrano ed escono. La sua mente fantastica, va là dove regnano le sue vere intenzioni, ma dove il suo credo, la sua educazione e il suo moralismo lo inibiscono.
Berto Immagina di poter sfogare i suoi potenziali vizi, i suoi desideri più nascosti: masticare la gomma americana a bocca aperta; poggiare i piedi sulla scrivania e sbracarsi sulla poltrona con schienale ribaltato all’indietro; una serie di risposte a dovere nei confronti del collega malizioso e martellante, e magari fargli fare una figuraccia davanti a tutti. Desidera assecondare con mille carezze le curve della bella e formosa segretaria del direttore generale, fare ingelosire così la dolce collega frontale di scrivania, farsi perdonare da lei poi recitandole una poesia seguita da un galante invito a cena; a seguire poi il digestivo a casa sua; dire il fatto suo al collega pari livello che gli ruba le idee e le soluzioni per promuoverle all’attenzione del capo facendole proprie; fumare una sigaretta alla faccia dei divieti, soffiando anelli di fumo per aria; ingozzarsi di dolci, vino, poi grappa senza doversi preoccupare di sbronza, colesterolo e quant’altro, sempre in agguato; una miriade di desideri repressi dalla propria etica e dalle circostanze oggettive d’intorno.
Questi desideri diventano ogni giorno più forti, più numerosi. Desidera tuffarsi d’estate nella grandissima fontana posta nell’atrio del palazzo ove si reca a lavorare; scendere le scale scivolando lungo il corrimano; parcheggiare la sua nuova jeep con frenata testacoda sulla ghiaia del parcheggio, schizzando i sassi contro la vetrata infrangibile della reception; cuocere le patatine fritte e i popcorn e poi il caffè col fornello a gas sulla propria scrivania d’ufficio, e via discorrendo. Insomma tutti desideri innocui, comunque proibiti, secondo il buon senso comune.
Un giorno, come tanti altri, rientrando a casa – doccia, cena, TV e poi letto – fissando il solito panorama sempre più oscuro dalla solita finestra, gli pare di scorgere un’ombra strana in trasparenza che gli fa cenno con la mano di seguirla. Si alza, corre verso la finestra, l’apre … nessuno. Torna a letto, riprende la contemplazione, come ogni sera, fino a prendere sonno. Gli occhi stanno per chiudersi ma … sente tre rintocchi alla porta.
“Chi è?” – urla, ma nessuna risposta. Si alza, va a vedere dallo spioncino … nessuno. Apre la porta … nessuno.
“Sarà uno scherzo di qualche buontempone” – pensa, e ignora i rumori e le ombre successive.
Ma l’ombra che traspare dalla finestra prende forma, sempre più reale, e gli fa cenno con la mano di seguirla, non può non destare la sua curiosità, quindi decide di assecondarla. Si alza, si veste continuando a tenerla d’occhio ed esce di casa.
Viene irradiato da una potente luce, lì dove c’era quell’ombra che lo invitava ad avvicinarsi. Non può fare a meno di seguire quella luce che sfavilla sempre di più, parando il bagliore con un braccio davanti agli occhi, e osservandone attonito tutte le evoluzioni.
La luce pian piano si affievolisce prendendo la forma di un grande portone luminoso. Il portone comincia ad aprirsi e lui non riesce a frenare l’impulso di entrare. Si fa coraggio e oltrepassa la porta di luce, per vedere … lo stesso mondo che aveva lasciato alle spalle, ma con qualcosa di diverso, che fatica a percepire.
Sembra tutto uguale, ma … le cose non sono al proprio posto. Le porte si aprono da destra verso sinistra, le automobili viaggiano sulla corsia di sinistra, è l’ora del tramonto, ma il sole sta sorgendo. Ma che sta succedendo? il portone di luce si sta richiudendo, troppo tardi per raggiungerlo e rientrare.
Momento di panico. Mentre si chiede cosa stia succedendo, si dà un pizzicotto per verificare che non stesse sognando e il dolore gli conferma che è tutto reale. Si sente perduto, l’ombra non c’é più. L’orologio segna le otto del mattino, l’ora di andare in ufficio, ma non è vestito a dovere. Tardi per tornare a casa, decide dunque di avventurarsi verso il posto di lavoro con ciò che indossa, tutto sommato non troppo indecente anche per un uomo del suo stile. Deve fare più attenzione, attraversare la strada guardando a destra nella prima metà e a sinistra nella seconda, tutto sembra muoversi all’incontrario e le direzioni sono opposte alle solite, come muoversi all’interno di uno specchio. Raggiunge finalmente il luogo di lavoro.
Il campanello non é il solito, emette una dolcissima musica melodica, anziché quell’odioso penetrante e rauco squillo asettico senza nota. Apre direttamente il capo, allegrissimo ed accogliente, per nulla infastidito del ritardo del suo sottoposto.
Peraltro costui indossa un abito molto sbarazzino, non conforme al ruolo direttivo che esercita. Ciò fa sentire più a suo agio il nostro Umberto, che si avvia verso la propria scrivania. Ma dove sono le pratiche? “Buongiorno Berto! oggi le tue pratiche le ho svolte io, ma tranquillo, ho imitato la tua firma!” – dice il collega arrivista pari livello che di solito gli ruba le idee – “Poi ti ho anche ultimato quella proposta contrattuale che non riuscivi a concludere su quel sub-appalto: al capo è piaciuta, e ti farà avere una promozione!”.
Stupefatto, ringrazia il rinnovato collega, non più odioso. Ma non fa in tempo a distogliere l’attenzione che due mani di qualcuno alle sue spalle gli tappano gli occhi: “Indovina chi soonooo?” – intona una bellissima voce femminile. E’ la sua collega frontale che non é al suo posto: si era appostata per fargli la sorpresa. “Così non guardi la segretaria del direttore, Dongiovanni! Allora? quando mi inviti a cena al solito ristorante e poi a casa tua per il digestivo? sono anni oramai che mi parli di casa dove vivi ma non me la fai mai vedere! hai capito chi sono?”, conclude senza allontanare le mani dai suoi occhi. Certo che l’aveva capito, nonché desiderato. Ma quando mai le aveva fatto proposte o inviti? si chiede, ma non si sforza più di tanto a ricordare ed entra subito nella parte. Le prende dolcemente le mani, osando forse troppo, ma quella recidiva timidezza è ben soffocata. Si alza e con estrema galanteria l’accompagna al suo posto, sussurrandole all’orecchio l’invito per la sera stessa. Questo mondo ribaltato nelle cose e nelle persone comincia a piacergli quando … ancora con la mano della collega nella sua, incontra lo sguardo del solito collega malizioso. Sentendosi colto in flagrante si prepara a subire la valanga di allusioni e frecciatine, e a preparare la controffensiva. Stavolta ha le parole pronte per la risposta, aspetta che lui sferri il primo colpo di scherno, che pronunci le solite parole allusive… che però non arrivano. Anzi, il collega malizioso gli strizza l’occhio destro senza farsi notare da alcuno, come in senso d’approvazione e complicità, poi gli porge una gomma americana e gli sussurra all’orecchio “Questa scongiura l’alito cattivo, vecchio mandrillo!”, e i due scoppiano in una forte risata.
Berto, ancora una volta sorpreso e stupefatto di ciò che sta accadendo, torna alla sua scrivania, ma al posto della sedia trova una bella e comoda poltrona. Non si pone altre domande, d’istinto si siede, sbracandosi, accavallando le gambe e poggiando i piedi sulla scrivania come aveva sempre agognato, masticando la gomma americana a bocca aperta, quindi accendendo una sigaretta per soffiare anelli di fumo per l’aria, come da tempo desiderava.
La giornata, fin troppo densa di sorprese, volge al termine ed è ora di tornare a casa. Fa per uscire e … “Già ti sei dimenticato?” tuona una voce femminile, il volto che tradisce una finto disappunto.
“Certo che non ho dimenticato!” – replica Umberto, si volta e vede la sua collega frontale mani sui fianchi, piede destro martellante il pavimento e in attesa di una risposta. – “Come potrei! sei pronta?” aggiunge, con un risveglio di emozioni che non provava da tanto tempo.
Escono e si dirigono alla volta di un ristorante, che lui ricordava di non aver più frequentato da molto tempo, ma che conosceva bene. All’ingresso vengono accolti dal padrone del locale, “Solito posto?” – domanda il cameriere. “Come solito posto?” – pensa fra sè e sè Umberto – “Non vengo qui da almeno venti o trent’anni”, ma alla fine decide di rinunciare a porsi domande e ad accettare gli eventi che, tutto sommato, si stanno rivelando sempre più piacevoli.
“Sì, solito posto”, risponde Berto. Si siedono, ordinano una pizza, si guardano negli occhi senza dirsi niente. Lui rompe il ghiaccio: “Certo è strano, cara collega, siamo colleghi da tanti anni, viviamo faccia a faccia per l’intera giornata e mai abbiamo…”, ma s’interrompe, e non riesce ad andare avanti, perché si rende conto che anche il tempo è fuori posto. La collega lo toglie d’impaccio “Mai abbiamo cosa? mi porti sempre qui, ci facciamo la solita pizza, poi ti ingozzi di dolci, vino dolcetto, grappa e quindi sei troppo a pezzi per qualsiasi altra cosa e ti devo riaccompagnare fino alla porta di casa tua, te ne sei scordato? o sei sempre troppo sbronzo per fissare i ricordi? Altro che digestivo! Io… Io…” – e s’interrompe sbuffando. Umberto cerca di nascondere lo stupore. Oramai sa che i suoi desideri tutt’altro che innocui non sono più proibiti, l’atmosfera é cambiata ed anche la sua compostezza cede il passo alla sfacciataggine che pian piano emerge nei suoi modi di fare e di essere, che sempre più lo integrano nella sua nuova emergente personalità. Da quando ha varcato la porta di luce capisce che il mondo è cambiato, e lui di conseguenza.
Non può parlarne con nessuno, nè tantomeno con la sua collega, adesso lì a portata di mano, pronta per dare una svolta alla sua vita di orso in letargo. Mille pensieri che si susseguono in un centesimo di secondo prima di interrompere lo sfogo della collega: “Oggi è diverso, Bianca, Oggi niente dolci né grappa, ma solo il digestivo che gentilmente vorrei offrirti a casa mia”. La collega lo guarda stupita, rimane con la bocca rimasta aperta già dalla frase che non aveva concluso e balbetta “B… B… Bianca? mi hai chiamato per nome? finalmente! allora non mi vedi solo come una semplice collega…” – e s’interrompe, poi riprende – “… sssì, d’accordo, vada per il digestivo a c… casa tua, v… va bene!”.
Soddisfatto, Umberto chiede il conto, paga, apre la porta del suo fuoristrada e con galanteria invita Bianca a salire, dolcemente le chiude la porta. Mette in moto e parte alla volta di casa.
“Bella questa automobile, ce l’hai da poco vero?”
“Sì, da una settimana, un vero gioiellino, ti piace?”
“Sei proprio cambiato, Berto, dove sono i tuoi vizi? la tua arroganza? sembri un essere umano … quasi non ti riconosco, ma non importa, ti preferisco così”
Berto si volta verso di lei e, ricambiandole il sorriso, “Siamo arrivati”. Interpretando il ruolo di galante e trasparente corteggiatore, ruolo a lui pressoché sconosciuto in entrambe le vite, corre ad aprire la portiera e invita la collega a scendere prendendola dolcemente per mano.
Entrano in casa: Davanti a sé un appartamento completamente diverso. A parte le posizioni opposte a cui si era già abituato in ufficio e per le strada, anche l’arredo è completamente diverso: pareti pennellate di colori vivaci, luci a scomparsa sulle parti alte delle pareti che illuminano l’interno sfruttando il riflesso del soffitto. Una fantasia floreale al centro del tavolino nell’ingresso-soggiorno. Un grande divano letto accompagnato da due poltrone ai lati a circondare il tavolino; di fronte al letto una libreria che avvolge un mobile tv riempito da un sofisticatissimo impianto stereo hi-fi collegato a un televisore digitale di ultima generazione; in ultimo, tocco di classe, un bellissimo mobile-bar all’angolo adiacente il divano e la libreria.
Umberto riesce a mascherare l’inevitabile stupore che lo assale ancora una volta. Invita la collega a togliersi il soprabito e a mettersi comoda sul divano, mentre si dirige verso il mobile bar con disinvolta naturalezza, prende due bicchierini e versa un liquore a base d’erbe: il famoso digestivo.
“Finalmente! è questo il digestivo dalle proprietà afrodisiache?” – rompe il silenzio la donna che ben apprezza le gentilezze del suo ospite, in attesa delle prossime mosse.
Umberto le fa compagnia con un bicchierino riempito a metà che incontra delicatamente quello della ospite in un leggero cin cin accompagnato da uno sguardo ed un sorriso di complicità che risponde alla sua domanda e si siede accanto a lei, spostando il tavolo di lato, a liberare l’area antistante il divano.
Sorseggiando il digestivo lei comincia a parlare, per mascherare l’imbarazzo, del lavoro, dei problemi, dello stress, mentre lui, annuendo senza ascoltare una sola parola, afferra lentamente il telecomando, preme un tasto e si leva nell’aria una bellissima musica dall’impianto stereofonico, che riesce a interrompere la conversazione creando una bellissima atmosfera.
“Ti piace?” – chiede Umberto, consapevole della scelta musicale giusta per la circostanza
“E’ bellissima questa musica! come fai a sapere che mi piace?” – risponde la donna spalancando gli occhi
“Non lo sapevo” – risponde Umberto ammiccando, mentre preme un altro tasto del telecomando
Le luci a scomparsa si attenuano progressivamente, una mano dolcemente si posa sulla testa della donna, la quale lentamente socchiude gli occhi, ad assecondare le coccole del suo ospite senza alcuna esitazione, deglutendo l’ultimo goccio del suo digestivo. Un altro tasto sul telecomando e il divano comincia a scivolare in avanti distendendosi lentamente insieme ai due, mentre la musica intona note sempre più carezzevoli e galeotte nella storia d’amore nascente fra i due… “colleghi”.
Tralasciando i dettagli sulla dinamica delle ore notturne successive, i due si svegliano al mattino abbracciati e, al suono della sveglia, lei sobbalza:
“Oddio! dobbiamo andare a lavorare, ma devo passare da casa e … se ci vedono arrivare insieme… penseranno che…”
“Non preoccuparti” – la tranquillizza lui – “prendi le chiavi della mia macchina lì sul tavolino, vai a casa tua, parcheggi nella strada parallela, fai quel che devi a casa e vai al lavoro con la tua macchina. Io arriverò più tardi, mi recherò a casa tua con l’autobus, prenderò l’auto e poi arrivo anch’io al lavoro. Dì al capo che arriverò più tardi”.
“Hai pensato a tutto, come sempre” – replica la donna annuendo – “un latin lover come te ne sa una più del diavolo. Ci vediamo in ufficio. A dopo!” – conclude la donna, mentre si alza, si veste in fretta, prende le chiavi ed esce senza altri convenevoli.
Berto rimane nuovamente solo, guarda la finestra la luce del sole che illumina la stanza e gli torna in mente l’ombra che era fuoriuscita appena un giorno prima durante le sue fantasticherie mentre osserva il non più solito panorama fuori della finestra. Tutto è cambiato, perfino lui.
“Latin lover? e da quando? forse da oggi! ah ah ah” – pensa fra sè e sè mentre ride scuotendo la testa, ripensando alle ultime ore passate meravigliosamente con la sua collega-partner. Si alza dal letto soddisfatto di questa sua nuova vita senza interrogarsi più sulle novità del nuovo mondo che sta vivendo, che finalmente calza secondo la logica dei suoi desideri repressi fino a qualche tempo prima. Dopo la doccia e dopo essersi vestito, mentre fa per uscire nota un biglietto vicino al telefono che recita: “Memo: chiamare il medico nel pomeriggio, deve dare la risposta” seguito dal numero di telefono del medico, data e ora. Ma chi aveva scritto quel biglietto? forse lui nel corso della sua vita precedente al suo ingresso nella nuova dimensione. Prende il biglietto, lo mette nel portafoglio, esce di casa recandosi alla fermata dell’autobus, come da piano.
Ivi riprende il suo fuoristrada, si reca al posto di lavoro e quando entra nel cortile dove c’è il parcheggio viene preso dall’irrefrenabile impulso di accelerare, sterzare per poi bloccare il veicolo col freno a mano, godendosi un bel testacoda sulla ghiaia del parcheggio, quindi schizzando i sassi contro la vetrata infrangibile della reception: l’aveva sempre desiderato, e l’ha fatto. Entra poi in ufficio, si accomoda al suo posto, strizza l’occhio alla collega, adesso partner, che ricambia con un sorriso. La giornata si svolge intensa, piena di lavoro, finché non arriva il pomeriggio e con esso la pausa caffè. Davanti alla macchinetta del caffè, Umberto apre il portafoglio per cercare la moneta e, non appena vede il foglietto si ricorda che deve chiamare il medico. Così fa non appena riprende il suo posto. Gli risponde una voce maschile, professionale: “Dottor Umberto, venga a prendere le sue analisi, brutte notizie purtroppo”. Uscendo dal lavoro salutando tutti formalmente si reca dal medico che lo riceve subito.
“Dottor Umberto, poichè lei non ha parenti prossimi devo dirlo solo a lei: le son rimasti massimo tre mesi di vita. Il suo male non regredisce, anzi la sta progressivamente uccidendo”
“Cosaaa? che sta dicendo dottore, che male? ma come … com’è possibile? cos’è successo?” – replica Berto impaurito quanto sorpreso.
“Signor Umberto, i suoi vizi, i suoi eccessi, le sue sregolatezze alimentari e non solo… sono fattori di rischio che hanno contribuito al peggioramento del suo male. Mi dispiace, ma dovevo dirglielo”.
Già, come una “resa dei conti”. Inutile cercare di spiegare al medico che non era la sua vita, che si ritrovava fino a quel momento piacevolmente prigioniero di una specie d’incantesimo e adesso è detenuto di un incubo, nel braccio della morte. Un dolore diffuso comincia a propagarsi in tutto il corpo, mentre raggiunge casa, entra e si butta sul letto, esausto, dolorante, senza neanche svestirsi: non ne ha la forza. Il dolore si attenua, ma per quanto ancora?
Contempla la solita finestra, ricorda quel noioso panorama che presto gli sarebbe mancato. Pensa che non era poi così male, ma è troppo tardi per apprezzarlo. E ripensa a quell’ombra, la cui apparizione aveva cambiato la sua vita. Ma perché? perché proprio lui? che aveva fatto di male? anzi! è per via del bene cui si è adoperato che era rimasto solitario e orso. “Non è giusto”, pensa, mentre si sente assalire da una rabbia crescente. Con un impeto d’ira raccoglie le sue forze, si alza, esce per strada alla ricerca dell’ombra strana e della porta di luce.
“Dove seeeiii? perchè non appari più? adesso che mi hai rovinato sei contento, chiunque tu sia? cos’era? un patto col diavolo? un dottor Faust post-moderno?”
Affannosamente, dopo aver lottato con le ombre della sera, sopraffatto nuovamente dal dolore in tutto il corpo, rientra in casa, si rimette a letto e crolla in un sonno profondo.
In sogno gli appare nuovamente quell’ombra, l’ombra che l’aveva distolto dalla sua vita monotona, l’ologramma che adesso sembra guardarlo e scuotere la testa, sembra anche voler comunicare con lui: “Volevi una vita diversa? ce l’hai, ma con tutti gli effetti collaterali”. Sempre nel sogno, in un impeto di rabbia, prende una scarpa e gliela tira contro, la colpisce, l’ombra si dissolve, ma la scarpa procede come un proiettile nella sua traiettoria e colpisce il vetro che va in frantumi con forte fragore. Una forte ventata gelida entra attraverso la finestra giocoforza spalancata e una fortissima luce accecante invade l’interno della casa e la illumina .
Si sveglia di colpo, si rende conto di aver sognato e, rassicurato all’idea di non dover riparare la finestra, si alza per andare a bere un bicchier d’acqua. Ma le sorprese non sono finite. Si dirige verso la cucina, accende la luce e … con sua grande meraviglia tutto sembra essere ritornato al posto suo: le luci soffuse a parete sono sparite, al loro posto il vecchio lampadario di sempre. Sparite le due poltrone fiancheggianti il divano-letto, sparite altresì le apparecchiature elettroniche e, al posto dell’imponente impianto stereo, il suo moderno apparecchio TV; sparito il mobile bar. La casa, insomma, aveva ripreso le sue sembianze originali.
Un breve senso di rimpianto e di delusione si fanno strada nel suo animo, come quando ci si ridesta di colpo da un bel sogno dal quale non ci si vorrebbe mai risvegliare, ma un dubbio l’assale: il suo male? esce nuovamente per strada, si mette a correre, quasi ad evocare quel dolore che si era accanito su di lui fino a poco fa, corre, corre a più non posso fino allo stremo finché, esausto, si ferma per riprendere le forze. Il respiro è affannoso, ma nessun dolore: solo fiatone. Un grande senso di sollievo fuga le ultime tracce di rimpianto, l’incubo sembra aver avuto termine. Rincuorato, ripiega verso casa, senza fretta, ripensando alla sua avventura, sorridendo, e pronto a passare una notte serena, per affrontare una giornata nuova.
Il risveglio, al mattino dopo, non è più inquinato da quel senso di monotonia abitudinaria e il nostro Umberto si dirige con la sua Jeep verso il solito posto di lavoro, pronto ad affrontare la routine lavorativa. Con sua grande gioia vede tutto com’era due giorni prima, nessuna tentazione di “frenata testa-coda su ghiaia”, parcheggia, entra, timbra il cartellino e si dirige verso la sua scrivania. Si siede, contempla gli oggetti felicemente a loro posto, squilla il telefono: “Dottor Umberto? oggi può passare a prendere le sue analisi? le posso anticipare che è tutto regolare, ha una salute di ferro, come un ragazzo di vent’anni”. Era il suo medico.
Ancora un sospiro di sollievo con la conferma definitiva di essere tornato al suo mondo, fatto di abitudini e di schemi inflazionati, ma vivo e in salute. Poco dopo giunge la collega di fronte, che saluta educatamente e prende posto alla scrivania davanti a lui, poi, rivolgendosi a lei:
“Bianca, posso darti del tu?”
“Sarebbe ora, ragionier Umberto … ehm, Berto, siamo colleghi da tanti anni. A cosa devo quest’improvvisa rivelazione?”
“Vorrei invitarti, all’uscita dal lavoro, a prendere un aperitivo … analcolico, naturalmente! Poi… vedremo, vuoi?”
“Ma certo, volentieri, rag… ehm… Berto, chiaro, dopo vedremo…” – conclude la collega Bianca con un sorriso informale, amichevole.
Soddisfatto, Berto, affronta anche le inevitabili battute del collega malizioso che si trova sempre immancabilmente sul luogo e al momento giusto per dire la sua. Ma Berti, prontamente, stavolta lo anticipa: “Invidia?” – e gli strizza l’occhio, poi aggiunge: “Posso offrirti un caffè?”.
Da quel momento, Berto, non si sente più oppresso dalla quotidianità, sorride sempre e ogni tanto ripensa a quello strano incantesimo, quello strano sogno-realtà vissuto come una vita parallela, che gli aveva comunque insegnato qualcosa: nel suo inconscio egli desiderava sentirsi qualcuno importante, un principe realizzato, desiderato dalle donne, ma il suo subconscio in qualche modo gli aveva trasmesso un possibile prezzo da pagare in nome di una vita ricca di piaceri e facili soddisfazioni.
La bilancia adesso pende a favore della salute e della sobrietà, il cosiddetto bene più prezioso al mondo, che per nessun motivo Berto vuole rischiare di perdere, anche senza castiganti rinunce.
L’incantesimo della vita è l’unica fiaba che si ricorda per sempre e giorno per giorno. E’ il viaggio più difficile da affrontare, ma se vissuto con saggezza ed equilibrio ne sarà sempre valsa la pena.
Volere non sempre è potere, ma questa è un’altra storia.
Vincent
Scrittore, Musicista, Informatico
Dal mio primo libro “Le Favole di Vincent”, Racconto n. 10