I dieci punti dell’orizzonte iniziavano ad intrecciarsi. Fukami era arrivato per aspettare e lì i suoi occhi non distinguevano più il giallo dall’arancio. Se ne sarebbe andato una volta che avesse finito di arrivare. I punti si dischiudevano e andavano alla ricerca di qualcos’altro, forse diverso o forse uguale a loro. Sicuramente Fukami non faceva parte di questo meccanismo, e quindi se ne stava in disparte. Sospirando. Sublimando.
Tra le zanne dello spazio i misteri decidevano di non essere più tali. La mandibola di Fukami mordeva rovinando l’assetto dei suoi denti, perché strideva a vuoto. Mentre invece la digestione del vuoto scartava tutto ciò che era accidentale, tra cui Fukami.
Accettazione. No, non era accettazione. Condivisione, quello forse sì, ma in solitudine.
Triangoli. Sfere. Rettangoli. Quadrati. Figure e prismi. Tutti ridotti a punti dischiusi che eliminavano le proprie forme. Fukami comprendeva. E aspettava.
Fukami si sentiva attraversato dalle spire di quel batuffolo arancio. Con i suoi morbidi rami rendeva la visione del mondo trasparente e riusciva a trarre attraverso di sé un spirale che lentamente inghiottiva il mondo.
Fukami, che poco tempo prima era indaffarato nelle sue spoglie mortali, tra valigie e tessuti grigi, ora veniva introiettato nel momento. Tra le spire del tutto all’orizzonte, quel tutto arancione. Non cercò di fare resistenza, chi mai avrebbe potuto lottare contro… come chiamarla? Un’affettuosa super nova composta da piccoli punti che si intrecciavano. Una potenza universale che giocava con i “se” e con i “ma” che gli uomini si sono sempre posti.
Ora sono qui, cogitò Fukami.
Il Tutto scomparve. O semplicemente, non c’era mai stato.
Di Matteo Abozzi