24 agosto 79 d.C.: il Vesuvio “consegna” Pompei alla Storia

“Mai nessuna catastrofe ha procurato tanta gioia come quella che seppellì queste città vesuviane”

Il cinico realismo di Goethe traccia, con una semplice frase, l’entusiasmo di storici, archeologi e appassionati: il disastro provocato dall’eruzione del Vesuvio, fra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C., ha permesso di conoscere la Storia, quella scritta dalla gente comune, dalla quotidianità di una vita pietrificata negli ultimi gesti, restituendo Pompei quale unico luogo al mondo capace di raccontare nel dettaglio la vita di una qualsiasi città romana e della sua Gens.

La storia del popolo pompeiano sembra uscire dalla favola della Bella Addormentata nel Bosco, immortalato nella sua immobilità come sotto un incantesimo.

Solo che, appena 79 anni dopo la nascita di Cristo, al posto della strega cattiva è la Natura Matrigna di leopardiana memoria a mettere fine a gioie, dolori, risate, amori, commerci, ma soprattutto a tutti quei piccoli gesti che l’essere umano compie ogni giorno, dalla notte dei tempi.

Ufficialmente nota come Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum, la cittadina di Pompei è un attivissimo centro la cui fortuna economica si fonda sul fiorente commercio di “garum”, una salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato che gli antichi Romani aggiungevano come condimento a molti primi e secondi piatti, della pietra vulcanica, della lana e di tutti i prodotti ricavati dalle coltivazioni dell’agro circostante.

Poco meno di 20mila abitanti, una struttura urbanistica ordinata, Pompei sorge su un tracciato “misto”: se da una parte le strade sono disposte secondo la struttura del cardine e del decumano partendo dal foro, dall’altra ha subìto le influenze presumibilmente osche* del primissimo insediamento urbano.

In epoca molto antica, infatti, la zona aveva visto le popolazioni autoctone entrare in contatto con Etruschi e Greci prima e con i Romani poi.

I presagi della tragedia si sono già manifestati nel 62 d.C., quando un terremoto di dimensioni catastrofiche colpisce Pompei e molte altre città campane, tra cui Ercolano.

Da allora, una serie di fenomeni sismici e vulcanici inizia ad attanagliare la zona. Paradossalmente, quando avviene l’eruzione che seppellisce Pompei, Ercolano, Stabia e molte altre cittadine sorte ai piedi del Vesuvio, sono ancora in corso i lavori di restauro e di ricostruzione degli innumerevoli edifici danneggiati.

Addirittura, parecchi edifici pubblici sono ancora fatiscenti. Fonti storiche narrano che i cittadini più abbienti hanno già affrontato la questione spostando la residenza nelle ville di campagna nei dintorni di Pompei, convinti di essere più al sicuro.

Tra le testimonianze più autorevoli e importanti ci sono le straordinarie lettere che Plinio il Giovane invia allo storico Tacito, quando quest’ultimo chiede notizie di Plinio il Vecchio, suo zio.

Karl Brullov – The Last Day of Pompeii – Google Art Project

Nella prima lettera, il nipote narra dettagliatamente le ultime ore di vita del fratello della madre, suo tutore e insegnante, con straordinaria efficacia: “Caro Tacito, mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale. Quantunque infatti, egli sia deceduto nel disastro delle più incantevoli plaghe, come se fosse destinato a vivere sempre – insieme a quelle genti ed a quelle città – proprio in virtù di quell’indimenticabile sciagura, (..). Era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l’una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell’ordinario sia per la grandezza sia per l’aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare il prodigio. Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun’altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l’idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami, credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l’esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi; talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sè terra o cenere”.

Plinio il Vecchio, in un primo momento, decide di recarsi sul luogo per “la sua profonda passione per la scienza”, ma cambia idea non appena gli arriva una lettera in cui “Rettina, moglie di Casco, terrorizzata dal pericolo incombente, lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso”.

Ed è qui che lo studioso diventa un eroe: compresa la tragicità della situazione, Plinio “cambia progetto” e fa uscire in mare delle quadriremi dove sale lui stesso, per andare in soccorso non solo a Rettina ma a tutta la gente in pericolo sul litorale.

Il nipote prosegue il racconto: “Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta e il timone proprio nel cuore del pericolo, cosi immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo. Oramai, quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso e una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale. Dopo una breve esitazione, se dovesse ripiegare all’indietro, al pilota che gli suggeriva quell’alternativa, tosto replicò: – “La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano”.

Pomponiano si trova a Stabia, dalla parte opposta del golfo ed è lì che giunge Plinio, che conforta l’amico, cercando di “smorzare la sua paura con la propria serenità”.

Nel frattempo, dal Vesuvio risplendono delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettono alte vampate, i cui bagliori e la cui luce sono messi in risalto dal buio della notte.

I cortili cominciano a riempirsi di ceneri miste a pomice, il livello cresce a una velocità tale da impedire alle persone di uscire dalle proprie stanze.

Inoltre, “sotto l’azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta, lasciavano l’impressione di sbandare ora da una parte ora dall’altra e poi di ritornare in sesto. D’altronde all’aperto cielo c’era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra questi due pericoli indusse a scegliere quest’ultimo. In mio zio una ragione predominò sull’altra, nei suoi compagni una paura s’impose sull’altra. Si pongono sul capo dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall’alto”.

Ercolano, panorama

Altrove è già giorno, ma in quei luoghi regna “la notte più nera e più fitta di qualsiasi notte”, Plinio il Vecchio fa fatica a respirare, chiede acqua fresca, stramazza al suolo, si rialza aiutato da due schiavi ma ricade a terra: “Quando riapparve la luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo) il suo cadavere fu ritrovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui si presentava il corpo faceva più pensare a uno che dormisse che non a un morto”. Ha 56 anni.

A metà mattinata del 24 agosto del 79 d.C. il gigantesco tappo di lava solidificata che ostruisce il cono del Vesuvio esplode: sotto la spinta dei gas, vola in aria e si frantuma generando lapilli che si depositano intorno al vulcano in un’area dal diametro di circa 70 chilometri, nella direzione di Pompei.

Né Sorrento, né Ercolano sono toccate dalla pioggia di lapilli, che ricoprono Pompei per un’altezza di 2,60 metri. La “pioggia” continua a cadere per quattro giorni, cessando solamente il 28 agosto, accompagnata da esalazioni di gas venefico e dalla caduta di cenere.

Come non bastasse, la gente è terrorizzata anche dalle continue e violente scosse sismiche che arrivano a danneggiare città come Napoli, Nola e Sorrento.

Ercolano viene ricoperta da una terribile colata di fango, che riempie letteralmente l’area occupata dalla città, arrivando a 20 metri d’altezza.

Tuttavia, secondo uno studio dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia dell’Università Federico II di Napoli, i Pompeiani non furono uccisi dalla cenere ma da una spaventosa ondata di calore.

La morte a Pompei, quindi, non arrivò  per soffocamento dopo una lunga agonia.

Al contrario, fu istantanea, causata da un’onda di calore da 600 gradi centigradi dovuta al passaggio di una nube ardente a bassa concentrazione di cenere, ma di grande spessore. L’onda, secondo lo studio pubblicato sulla rivista Plos One, sarebbe stata in grado di trattenere il calore fino a distanza notevole dal vulcano.

In ogni caso, Pompei cessa di esistere il 24 agosto, giorno stesso dell’eruzione.

Scompare sotto 6 metri di materiali vulcanici, dopo un’eruzione in cui furono emessi circa 4 chilometri cubi di magma con una portata di circa 4mila metri cubi al secondo. Resterà sepolta per quasi un secolo.

Agli archeologi il merito di aver riportato alla luce una città e perfino i suoi abitanti.

Così Pompei, intatta e straordinaria, torna dal passato per raccontarci una storia di “soli” duemila anni.

cricol

* Gli Osci erano una popolazione indoeuropea di ceppo sannitico della Campania antica pre-romana, appartenente al gruppo osco-umbro