La verità non sarà mai completa, a meno che…

Pensieri liberi dai casi di Beniamino Zuncheddu e di un clochard.

Credo che nella sua tragedia Beniamino abbia avuto la fortuna di poter gridare la sua innocenza: sulla spiaggia da cui ha lanciato il suo messaggio nella bottiglia, oggi, vede sorgere un pallido sole.

Ormai è l’errore giudiziario più eclatante, con quei numeri che hanno il fragore di cannonate sparate in galleria. Trentatré anni senza mai ravvedersi, una sorta di mandala immateriale che ha destato l’attenzione della Procuratrice Generale di Cagliari che, nel 2019, ha firmato la richiesta di revisione che ha riaperto il caso di Beniamino Zuncheddu, fine pena mai.

Perché ne parlo se già ne hanno parlato tutti? Perché anni fa ho raccolto la storia assurda raccontatami da un clochard: nel 1958, poco più che un ragazzo, dovette dichiararsi il colpevole di un duplice omicidio per salvare la propria famiglia dalle ritorsioni del boss. Condannato all’ergastolo, ha dovuto sempre proclamarsi colpevole per mantenere vivi i suoi familiari. Da lì è iniziata la complessa stesura de “La giostra dei pellicani”: ho molto riflettuto, ma non sono riuscito a rispondere alla domanda «Cos’avrei fatto al posto suo?». Perciò, oggi, guardo da un punto di vista diverso la vicenda di Beniamino Zuncheddu, senza trovare soluzioni ma suscitando possibilità.

Mi limiterò pertanto a un pitch e ad alcune conseguenti considerazioni.

Questo è il pitch: «Gli screzi tra mandriani hanno raggiunto il culmine una sera di gennaio, nella mattanza all’ovile Cuili is Coccus, nel cagliaritano. Indotto al riconoscimento, l’unico sopravvissuto dichiara Beniamino il colpevole: fine pena mai, la condanna; l’assoluzione per non aver commesso il fatto, dopo trentatré anni di reclusione».

Perfetto. La ridda di ipotesi che si aprono adesso volge verso nuove indagini nei confronti di quel sopravvissuto (il solo testimone), di sua moglie (figlia e sorella di due delle vittime) e del poliziotto che avrebbe pilotato il riconoscimento.

Ma facciamo un salto indietro nel tempo.

Il caso si riapre e si suppone che quei pastori fossero testimoni scomodi del sequestro Murgia, che pochi mesi prima aveva interessato tutta la zona. Certo, dopo tanto tempo non sarebbe una certezza, ma darebbe un senso a tutto, però.

Seguitemi.

Gennaio 1991: come fare per liberare una comunità dall’onta di connivenza con l’Anonima Sequestri, e per scagionare la stessa organizzazione criminale da sospetti e nuove indagini? Un agguato in cui eliminarli, tutti tranne lui, il testimone, uno da obbligare a indicare “il colpevole” della strage. Se non l’avesse fatto, guai a lui e alle persone amate: ecco, il sopravvissuto/testimone doveva essere un uomo con qualcuno da proteggere e, magari, anche vicino alle vittime.

Per l’appunto, c’è stato un sopravvissuto quel giorno, anzi, quella sera, visto che l’assassino ha compiuto il suo piano intorno alle venti, l’otto gennaio del 1991: buio pesto per riconoscere qualcuno. Ma, per interrompere le indagini, il sopravvissuto ricattato, strizzato, terrorizzato doveva fare un nome e sostenere come movente l’escalation di screzi e liti per sconfinamenti del bestiame, trascinati negli anni, tra pastori antagonisti.

E infatti.

Il perito ha ricostruito la scena della strage. Le vittime sono state trovate in diversi ambienti dell’ovile: il più anziano, Gesuino Fadda, da una parte; il figlio Giuseppe in un’altra stanza, insieme al sopravvissuto, il cognato Luigi Pinna – il marito della sorella –, agonizzante e unico testimone; il loro dipendente, Ignazio Pusceddu, nella terza camera. Per un’azione simile, ci sarebbero volute almeno due persone.

Ma i colpi furono sparati da armi diverse, o no?

No?

Ambè… Dunque, sul posto c’era un killer esperto, veloce e preciso; uno bravo bravo. Uno sparatutto in carne e ossa. In sintesi: un Ninja. Beniamino contro tutti. Beniamino che per vendicare qualche vacca uccisa da quei quattro si è armato di sana pianta e, come Bruce Willis nei panni dell’eroe (Schwarzenegger mi sembrava eccessivo), ha sterminato i cattivi e salvato la mandria.

Ma poteva essere quel Beniamino da Burcei, paese di poco più di duemila abitanti in cui si conoscono tutti, un sicario del genere?

Se sì, non vi pare che l’Anonima Sequestri avrebbe assoldato lui, ventiseienne su cui investire per il futuro da criminale, invece che quei quattro, incapaci di fronteggiarlo?

Ormai si sa che non è quella, LA verità. Non è credibile oggi come non lo era allora.

Ma se il testimone sopravvissuto, quel Pinna, non fosse stato semplicemente indotto a riconoscere quella fotografia, ma fosse stato addirittura costretto a farlo, per salvare qualcuno?

In fondo, anche lui, come Beniamino, era solo e debole di fronte alla società più grigia, quella che negli anni Ottanta e Novanta, ha ammantato la splendida Sardegna con una nebbia fitta e inquietante che ha nascosto criminali, magistrati e mediatori. E sono sempre stati i più soli e deboli le vittime sacrificali.

E perché il movente della vendetta per qualche vacca sgozzata ha vinto su quello del regolamento di conti degli sgherri della banda locale dell’Anonima Sequestri, ormai alle ultime battute dopo oltre un centinaio di rapimenti nell’Isola? Perché Beniamino Zuncheddu era solo un pastore, non aveva capitali e neanche soci con cui spartirli. Non avrebbe potuto difendersi con prìncipi del foro combattendo la sua battaglia giudiziaria. E infatti. Come non avrebbe potuto sdebitarsi in alcun modo verso eventuali distrazioni e leggerezze nelle attività investigative o procedurali.  

E qualcun altro l’ha fatto, invece? Non lo so, ma chi può escluderlo, a questo punto… Sarebbe altrimenti bastata solo una fotografia o un suggerimento per far dire “sì, è lui”? Non credo proprio: dietro quell’ammissione di Pinna ci sarà stato molto di più. Come molto di più potrebbe scoprirsi sugli atteggiamenti della moglie e del poliziotto, a mio avviso vittime quanto Pinna di una pressione superiore e fortissima.

Quanti saranno i detenuti che, per proteggere qualcuno fuori, sono costretti a non potersi dichiarare innocenti? Non saprei, ma tanti.

La verità viene sepolta per amore? Sì. E per il potere. O per protezione.

E l’amore diventa condanna, dunque? Talvolta può, sì.

Ma quanto, mentire può essere gesto di immenso amore? Da genitore, non do limiti.

Ecco cosa mi ha lasciato il racconto del mio clochard, e condivido con voi anche quest’ultima riflessione: «Esiste la vera verità? Certo, ma bisogna varcare le apparenti convinzioni». Se conosceste il segreto per farlo, fate un fischio.

Ernesto Berretti