Just Mercy

Se avete voglia di vedere un film tratto da una storia vera, se avete voglia di appassionarvi, indignarvi, soffrire e restare attaccati alla storia in cerca di giustizia, questo è il film che fa per voi.

Le prime due condanne a morte del 2022 sono avvenute in Oklahoma e in Alabama. Ed è proprio in Alabama che Bryan Stevenson, giovane afroamericano laureato in legge a Harvard, decide di lavorare pro bono per difendere i detenuti nel braccio della morte.

Provate a pensare di essere innocenti. Di trovarvi davanti a un blocco stradale della polizia, di essere fermati e arrestati per l’omicidio di una 18enne bianca. Di essere certi di uscirne, perché estranei ai fatti. E di trovarvi invece condannati a morte.  

È il 1987. Walter McMillian è un boscaiolo afroamericano. Lo sceriffo Tom Tate lo arresta con l’accusa di essere Johnny D., pseudonimo affibbiato all’omicida della diciottenne. Bisogna trovare un colpevole in fretta, per la pace della comunità bianca. Al primo processo, durato un giorno e mezzo, la giuria chiede l’ergastolo. Il giudice si arroga il diritto di infliggere la pena di morte. In tutto questo qualcuno, pressato dalla polizia, dichiara il falso in cambio di uno sconto di pena e lo colloca nella scena del delitto. Per Walter è la fine.

La fame di giustizia di Bryan Stevenson – che su questa storia ha scritto il libro Just Mercy, da cui è tratto il film – fa sì che incroci lo sguardo di Walter. Il monologo finale racconta in poche frasi come un condannato a morte possa infondere mercy, la compassione, al suo avvocato.

Just Mercy – Il diritto di opporsi – Monologo finale

Da lì in poi è un susseguirsi di scoperte incredibili, rimpalli, rifiuti, manovre legali e politiche, insabbiamenti, palese razzismo. Ma lui non demorde. La sua missione è riaprire il processo. Esaminare nuovamente alibi e testimoni. E a volte sembra non bastare, in un crescendo che coinvolge lo spettatore. Impossibile non calarsi nei panni di un grande Jamie Foxx – McMillian e di un superlativo Michael B. Jordan in quelli del giovane avvocato.

Il film è il resoconto di un’immensa battaglia contro l’ingiustizia, il pregiudizio e il razzismo. “Basta guardarlo in faccia” è una delle motivazioni della polizia dell’Alabama.

From the 60 Minutes archives: The true story behind “Just Mercy”

La televisione, quella bella, dà una mano alla storia. Il programma 60 Minutes della CBS News arriva dove non hanno avuto successo le petizioni. Tutto il Paese si rivolta contro la condotta razzista e anticostituzionale del giudice che nel 1987 ha condannato McMillian dopo un processo durato un giorno e mezzo.

È il 1993. McMillian è scagionato da tutte le accuse. Il giudice archivia il caso. Walter può tornare dalla sua famiglia. “Giustizia è fatta”.

Ma il respiro di sollievo dura poco. Mentre Walter lascia il braccio della morte da libero cittadino, la camera inquadra il volto di Anthony Ray Hinton. Nel 1985, a 29 anni, viene condannato per aver sparato a due uomini in un fast food durante una rapina.

Il film si conclude con le riprese reali della sua scarcerazione, nel 2015. Trent’anni nel braccio della morte, da innocente. Il pugno allo stomaco, cari lettori, arriva al momento dell’abbraccio con la sua famiglia.

Il suo avvocato è Bryan Stevenson.

Non servono tante persone per fare la differenza. A volte ne basta una sola, per cominciare. A  volte basta la tenacia di sapere di essere nel giusto. E finire per fondare l’Equal Justice Initiative, che oggi conta più di quaranta membri e molti casi in cui detenuti accusati ingiustamente sono tornati a vivere liberi.

“Siamo tutti rotti da qualcosa. Tutti abbiamo ferito qualcuno e siamo stati feriti. Condividiamo tutti la condizione di fragilità, anche se la nostra fragilità non è equivalente […] La nostra vulnerabilità e imperfezione condivisa alimenta e sostiene la nostra capacità di compassione. Abbiamo una scelta. Possiamo abbracciare la nostra umanità, il che significa abbracciare la nostra natura spezzata e la compassione che rimane la nostra migliore speranza di guarigione. Oppure possiamo negare la nostra fragilità, rinunciare alla compassione e, di conseguenza, negare la nostra stessa umanità”. Bryan Stevenson