Intervista a Luca Ongaro

Ciao Luca, grazie per aver accettato il nostro invito. Benvenuto!

Un’altra storia è il tuo romanzo d’esordio e, sebbene il titolo richiami l’ultima scena dell’epilogo – molto divertente -, in effetti si tratta proprio di un’altra storia, perché nasce da un assunto che non ha un riscontro storico, ovvero la vittoria della battaglia di Adua da parte dell’Italia, nel 1896. Perché hai scelto di scrivere un ucronico?

Diciamo che è stata la vicenda a scegliere me, e non viceversa. Nella mia vita precedente, come la chiamo io, ho lavorato per trentacinque anni al servizio della cooperazione italiana allo sviluppo, mestiere tanto bello quanto complicato, ma che mi ha dato la possibilità di vedere un bel po’ di mondo.

Nel giugno del ‘94 sono arrivato in Eritrea per la prima volta, e sono rimasto profondamente colpito da quella realtà, per me completamente inattesa nonostante avessi già una certa esperienza d’ Africa. Più che colpito, direi quasi scioccato. Asmara era una città italiana, come architettura, come usanze, come modo di vivere, come cucina. Una provincia italiana rimasta ferma agli anni ’70. “C’è qualcosa che a scuola non mi hanno insegnato”, ho pensato, e allora mi sono messo a studiare la nostra storia coloniale, appassionandomi a quelle vicende di cui l’italiano medio conosce ben poco.

Tornando poi spesso da quelle parti, via via che le mie conoscenze si approfondivano, mi è sorta naturale una domanda, che ho scoperto poi essere comune a molti che si trovano a viaggiare in quei luoghi. E cioè: cosa sarebbe diventata l’Eritrea se la presenza italiana si fosse prolungata anche dopo la seconda guerra mondiale? Come la Francia in Algeria? O come gli inglesi in Kenya, o i portoghesi in Mozambico? E su questa domanda ho cominciato a immaginare una storia, o meglio, un’altra storia.

In questo scenario di fantasia, un posto privilegiato è riservato alla battaglia di Adua. Una sconfitta epocale, la più grossa disfatta di un esercito europeo in Africa, un’umiliazione che ha lasciato un segno pesante nella nostra Storia, quella con la S maiuscola. Per molti storici Adua fu un momento di svolta della nostra politica, coloniale e non solo: una sorta di sliding door della nostra nazione.

Il tuo romanzo ha diverse peculiarità: oltre a essere un ucronico, come detto, è ambientato in Eritrea negli anni Cinquanta e il mistero da svelare affonda le radici ai primi del ‘900. Perché non l’Italia e perché un cold case? Cosa ti affascina di quei luoghi e di quel periodo storico?

Come ho detto prima, non ho mai avuto la benché la minima intenzione di mettermi a fare lo scrittore. Semplicemente, mi sono trovato con questa vicenda che prendeva corpo, giorno dopo giorno, lentamente, come un corpo estraneo all’interno del mio cervello. Prima ho citato una data, il ’94; ebbene, il romanzo l’ho scritto nel 2016, quindi dopo 22 anni di gestazione! A un certo punto, banalmente, ho sentito l’esigenza di espellere quest’oggetto anomalo, e a quel punto non ho fatto altro che “trascrivere” in un mese quello che avevo in testa da anni. Non mi sono posto il problema di dove ambientarlo, perché quell’epoca, eccetera eccetera. La storia era quella, era nata così, non potevo farci nulla. Perché un cold case? Confesso: non lo so, oppure, più onestamente, non me lo ricordo. Nella mia testa era così e basta. L’unica annotazione che posso fare riguarda la scelta dell’anno, il 1956: è l’anno del primo scudetto della Fiorentina, di cui il protagonista del romanzo, il bravo commissario Francesco Campani, è tifoso accanito. E non solo lui, per dirla tutta.

Quanto ai luoghi, bisogna esserci stati per comprenderne appieno il grande fascino, che è legato non solo alla nostra storia e alla nostra cultura, così intimamente intrecciate a quelle terre, ma anche e soprattutto alla straordinaria bellezza di quei paesaggi, alla sorprendente architettura delle chiese rupestri, alla loro storia millenaria (la regina di Saba era eritrea!), e, non ultimo, alle genti meravigliose che vi abitano.

Tra i diversi personaggi storici presenti spicca un anziano Mussolini che, nel 1956, è il settantatreenne Ministro delle colonie. L’ idea che mi sono fatta è che tu non sia riuscito a trattenerti dal fare questo cameo ironico, che abbia voluto farci vedere come sarebbe potuto essere “se” e che nel frattempo ne abbia approfittato per dipingere questa scenetta esilarante. Ci sono altri scenari storici alternativi a cui hai pensato/pensi e che ti piacerebbe utilizzare in futuro?

Mussolini è stata un’invenzione dell’ultimo momento. Cercavo un protagonista della politica italiana del secondo dopoguerra da arruolare per il ruolo dello sciagurato ministro delle colonie, quando mi è venuto in mente che, visto che la storia aveva preso tutto un altro corso, Mussolini poteva essere tranquillamente ancora vivo. Chi meglio di lui, artefice della sciagurata impressa coloniale del ’35, potevo sottoporre a questa specie di contrappasso? A quel punto potevo farne quel che volevo, e allora mi sono divertito a metterlo in caricatura: vecchio e imbolsito, un po’ rintronato dall’età ma sempre borioso, autoritario e presuntuoso. E alla fine l’ho fatto ingloriosamente ruzzolare in una pozza di fango sotto gli occhi dei cronisti e dei fotografi.

Comunque, la risposta alla tua domanda è: no, non ho in mente altri scenari storici alternativi. Come ho già detto, sono uno “scrittore per caso”: la colonia eritrea degli anni ’50 mi basta e mi avanza!

Tu sei un agronomo di professione e hai donato il tuo bagaglio professionale non al protagonista principale, ma a Emma. Come ti sei preparato per fare muovere il tuo commissario nell’Eritrea degli anni ’50 dal punto di vista professionale?

Bella domanda. In realtà, non mi sono preparato affatto. O meglio, ho abusato sfacciatamente dell’apertura di credito illimitata concessami dall’ucronia. Come nessuno si mette a questionare riguardo ai balzi nell’iperspazio dei romanzi di fantascienza di Asimov, così ben pochi andranno a cercare inesattezze o incongruenze nel funzionamento dell’immaginaria questura di Macallè. L’importante è che le invenzioni siano verosimili nel loro contesto. Ovviamente, ho cercato di ricalcare il più possibile i meccanismi della polizia italiana dell’epoca, a cui ovviamente l’amministrazione coloniale, pur essendo un parto di fantasia, doveva in qualche modo ispirarsi, ma su molte cose mi sono tenuto le mani libere. Tanto per fare un esempio, la figura del Procuratore del Re è un triplo salto mortale con avvitamento!

Io lo so già, perché ne abbiamo parlato di persona, ma so che i nostri lettori leggeranno il tuo romanzo e vorranno sapere quando incontreremo di nuovo Campani, Emma e tutti gli altri. Parlaci dei tuoi progetti futuri.

Una volta partorito il primo mostro (dico così perché mi viene sempre in mente quella sequenza del film “Alien”, in cui la creatura dello spazio, che si è sviluppata nel corpo di uno sfortunato astronauta, esce fuori con violenza squarciando il ventre del malcapitato) è stato relativamente facile continuare a raccontare di questo universo immaginario che è la colonia Eritrea degli anni ’50. Spinto anche, o soprattutto, dai commenti più che positivi degli amici, ho scritto altri quattro romanzi che hanno per protagonista il bravo commissario Campani, il suo fido ispettore Araya Girmay, sua moglie Emma e gli altri personaggi che popolano questo mondo di fantasia. Adesso sto scrivendo il sesto episodio della saga, ma, ti confesserò, con più fatica del solito. L’entusiasmo c’è sempre, ma l’età avanza, e i pensieri e le idee stentano a quagliare. Ma lo ripeto: scrivere non è il mio mestiere, non ne faccio un dramma.

Comunque, detto tutto questo, il prossimo romanzo del commissario Campani dovrebbe vedere la luce nei primi mesi del 2023, se tutto va come deve andare.

E speriamo che incontri il favore dei lettori come il primo.

Claudia Cocuzza